Gabriele D’Annunzio – Solus ad solam

Il Solus ad solam, definita come la sua opera più facile a leggere e più difficile a giudicare (secondo P. Pancrazi, nel «Corriere della Sera», 27 aprile 1939), è una delle ultime opere del D’Annunzio, poco conosciuta e pubblicata postuma nel 1939, un anno dopo la morte dell’autore. A differenza delle altre, probabilmente perché non concepita per essere pubblicata, qua il poeta da libero sfogo ai suoi sentimenti, trascrivendo la sua tormentata relazione con la contessa fiorentina Giuseppina Mancini, sotto forma di diario.

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solus

Specifiche

· Opera postuma (pubblicata il 25 marzo 1939 con Ledizioni, 1938 †)
· Nata come opera privata, viene pubblicata con l’autorizzazione della Mancini
· Tipologia: diario autobiografico epistolare (secondo la categorizzazione di Simonet-Tenant)
· Ambientazione: primi mesi autunnali (8 settembre al 5 ottobre) del 1908. Tuttavia le date non combaciano perfettamente con la stesura dell’opera, in quanto deliberatamente falsate
· Importante perché:
 D’Annunzio appare per quello che è veramente, o almeno si discosta dall’immagine che cerca di propagandare di sè stesso
 È un formidabile specimen (prova) di scrittura dannunziana: sperimenta qui quei modi intimistici adopererà nelle “Le faville del maglio

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Chi è la donna? Giuseppina Mancini, detta Giusini

Giuseppina Giorgi Mancini (S. Sofia di Romagna (FO), 31 agosto 1871 – Firenze, (?) 1961)

.Proveniente da una ricca famiglia borghese, sposò il nobile aretino Lorenzo Mancini, discendente dei Barbolani di Montauto, che, morto nel 1922 per alcolismo, trascorse la vita come donnaiolo e bevitore, provocando lo sdegno della moglie.

La donna con cui d’Annunzio intrattenne una relazione amorosa dopo Eleonora Duse fu la contessa fiorentina Giuseppina Mancini, che divenne la sua amante. Conosciuta dal poeta nel 1906, vi stabili una relazione durata fino 1908. Nonostante l’avesse appena conosciuta e fosse sposata con il nobile aretino Lorenzo Mancini, dopo un anno di corteggiamento serrato vedasi la dedica de La Nave (1908) e la composizione di opere sotto l’influenza del suo amore riuscì la notte del 11 febbraio 1907 nelle stanze della Cappuccina in una sera nebbiosa e molle, a strapparle finalmente il grande dono. .

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La Capponcina

Quella sera fu per loro memorabile, indimenticabile, leggendaria ed ineguagliata, tanto che, prossimo a morire, il poeta rievocherà quei ricordi dolci e laceranti, la mia ultima felicità; D’Annunzio non dimenticò mai quella data: la menzionò sempre nelle lettere all’amata.

.Ad esempio:

«Ti ricordi della sera di febbraio? Era un lunedì, come oggi: era il giorno della luna nuova, l’undicesimo del mese. Eravamo stati nel ‘piccolo giardino’. E, finalmente, dopo tanto diniego, dopo tanta lotta, io t’avevo presa su i cuscini verdi; ma tu, nel tuo sbigottimento parevi inconscia.»

La relazione

Da quel momento iniziarono a frequentarsi, come si può vedere nei nomignoli che si davano: la chiama Giusini, Santa Giusini o Amaranta; si fa chiamare Grabri tuo.

La relazione che intrapresero, citando il testo, assunse i connotati tipici della passione irrazionale, come la mania dionisiaca, linvasamento ardente che irretisce e annebbia il corretto pensare; un vortice che stremava i sensi per eccesso di voluttà

Nonostante potesse sembrare l’ennesima relazione del Vate, le cose non andarono assolutamente bene: come viene spiegato nell’introduzione di Federico Roncoroni – che avrà modo nella Postfazione di parlare a proposito del Vate, della cronaca della sua disperazionela donna era da una parte infelicemente sposata, dall’altra abbastanza fragile sul piano psicologico e ciò la portò a non reggere più:

· Lo stress della sua relazione, dato che non era esattamente clandestina e infatti fu oggetto di molte chiacchiere dell’alta società Fiorentina;
· La molteplicità di sensazioni nuove provate a fianco del poeta;
· La gelosia ovviamente furibonda per i suoi continui tradimenti;
·L’enorme fatica del dover star dietro ad un uomo come D’Annunzio (non è un caso infatti che altre donne come la Duse uscirono devastate dall’esperienza)

 

La donna continuamente combattuta tra desiderio passionale senso di colpa, la notte del 5 settembre del 1908 ebbe una sorta di Blackout mentale che la portò a vagare senza una particolare meta per le vie di Firenze. Rientrata fortunatamente sana e salva a casa, nei giorni successivi cadde in una specie di delirio paranoico perdendo temporaneamente la sua salute mentale: di conseguenza trascorse qualche anno in una casa di cura per malati mentali ristabilendosi nel 1911. Da quel momento tra i due si riavviò una corrispondenza visibile in alcune lettere del poeta, riportate a partire dalla data del 10 novembre 1911 che rivelano lentamente la vecchia passione che non si era mai spenta, rievocando i giorni del loro amore:

«E che darei stasera per averti qui, per cenare con te su quel divano come sul divano di lassù, quando le tue ginocchia erano coperte di rose sfogliate.»; «Tu sei stata veramente l’ultima mia febbre. Ora bisogna ch’io mi prepari a morire.» E ancora: «Ma tu sai che nella notte di Bùccari pensai a te; e a te penso molto spesso, con malinconia, con rimpianto, e talvolta perfino con speranza.»

 

Nota come il poeta decise di omaggiare la donna nel personaggio di Isabella Inghirami del «Forse che sì, forse che no», ultimo romanzo che scrisse, nel 1910.

 

Il Solus ad Solam

Il motivo dell’opera parte da qui. D’Annunzio, venendo impedito dalla stretta sorveglianza dei parenti della donna, contrari alla loro relazione, non ha modo di avvicinarsi a lei: pertanto decide di annotare le angosce, le ansie di quei giorni, gli inutili tentativi di prolungare la relazione, in un lungo lamento rivolto alla donna ormai malata e incapace di ricordare, nella sua follia, di lui; una conclusione che lo porterà sull’orlo del suicidio

L’opera viene redatta nel periodo in cui la donna impazzisce, quindi narra la perdita della ragione di Giusini, l’epilogo della loro relazione, sotto forma di un lungo colloquio con la donna amata e perduta. Quando ne parla, lo definisce “Libro di follia e di dolore, di disperazione e d’amore”, mentre quando scrive nelle lettere, gli accenna come giornale, oppure i quattro piccoli volumi che nessuno ha mai violato (lettera a “Giusini” da Arcachon, datata 25 agosto 1912)

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Continuerà a scriverle fino a pochi giorni prima di morire. Quel che è certo, è che fu un grande amore. Una testimonianza genuina di sofferenza e di disperazione.

 

 

Il titolo

Il titolo non è un a novità assoluta del poeta, in quanto usò questa espressione già in Lungo l’Africo, v.20, dell’Alcyone (“solo a te sola”).

Letteralmente il titolo si può tradurre anche come “da solo a sola”, il che rivela la vera natura del testo, quella di opera privata, realizzata da un innamorato per una innamorata, pertanto è fondamentale per poter conoscere l’uomo D’Annunzio, il che la rende un’opera unica rispetto alle altre (nonostante venga poi pubblicata).

 

Elementi

Vi e la commistione di tipico dannunziano e nuovi motivi:

· Da una parte si compiace dei suoi più tipici versi espressivi;
· Dall’altra propone quei modi intimistici di cui si avvarrà nelle “Le Faville del maglio, in cui Giusini, come la chiama, viene inserita col nome di Amaranta.

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Si tratta di un testo caratterizzato ancora una volta dalla sopraffazione letteraria (E. Falqui, D’Annunzio e il «Solus» italiano, «Il Libro italiano», Iv2 (1940), 76), dato che D’Annunzio è innanzitutto mito di se stesso:

Nonostante il testo si dimostri magniloquente, sentimentale, lacrimoso, in realtà come fa notare la prefatrice, quella che vuole apparire come sofferenza provata non edulcorata, in realtà è un’espressione ricercata, sorvegliata, costruita nei minimi dettagli, perfetta dal punto di vista letterario.

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Come esempi si possono annoverare:

· Le date spostate;
· Tessere stilistiche e lessicali piene di ricercatezza;
· Situazioni e ambientazioni da topoi letterari;
· Presenza di brani importati dai Taccuini;
· Nelle prime giornate del diario ricostruisce l’excursus della storia d’amore e spiega sintomi e diagnosi della Giusini con un palese tono narrativo;
·La prosa che si dimostra ancora una volta elegante, lirica, ricercata, musicale, appassionante e coinvolgente)

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Bisogna comunque ricordare che fu un periodo di grande angoscia per il poeta, che cercò di mostrarsi, seppur in aspetto minoritario, per quello che fu realmente:

  • Da una parte un uomo tenero e malinconico, dolce e appassionato;
  • Dall’altra uomo “falso” ed egoista, sensuale e “perverso”, capace di compiere gli atti più affettuosi e più generosi
  • Sempre pronto ad affermare, con un gesto o con una parola, i suoi diritti di essere superiore cui, anche in amore, tutto è permesso e concesso

 

Cronologia dell’opera

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08/09/1908 – Inizio della stesura dell’opera

05/10/1908 – Interruzione dell’opera, poiché “l’amarezza mi soffocò (secondo il testo)

30/10/1908 D’Annunzio scrive all’editore Emilio Treves per notificargli l’esistenza dell’opera, aggiungendo che gliela spedirà dopo che sara morto di morte violenta nel 1909, secondo un responso di indovini: «Tra i postumi ne ho uno che porta questo bel titolo Solus ad solam» (G. D’Annunzio, Lettere ai Treves, a cura di G. Oliva, Milano, Garzanti, 1999, 336). Tuttavia, l’opera accompagnerà il poeta nell’esilio in Francia

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11/11/1911 Giusini viene a conoscenza dell’opera mediante una lettera

04/02/1913 – Il poeta mostra il Solus a Luigi Albertini, direttore del «Corriere della Sera» gli racconta della proposta di pubblicazione di Treves. Tuttavia, per il Vate è un «diario per ora, e sempre in quella forma diretta, impubblicabile». L. Albertini, I giorni di un liberale: diari 1907-1923, Bologna, Il Mulino, 2000, nel frammento datato 4 febbraio 1913.

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26/05/1915 Il poeta le consegna l’autografo a Roma, prima di partire per la Grande Guerra

1918 – D’Annunzio chiede di riavere il manoscritto dalla Giusini, che glielo riconsegna poche ore dopo

1939 – Riappare il manoscritto, nelle mani della Mancini, che decide di pubblicare l’opera, grazie alle cure della studiosa Jolanda De Blasi (1888-1964), che si occupò delle 464 cartelle autografe.

Nello stesso anno esce presso l’editore Sansoni. Restituito alla Mancini, non fu mai più ritrovato

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Critica

Tra i critici che analizzarono l’opera ricordiamo G.Barberi Squarotti:

Quanto a d’Annunzio, io penso che sia uno degli autori fondamentali fra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento: nel mondo non ce ne sono molti altri di tale valore (Joyce, Thomas Mann, Faulkner, Hemingway, James, Proust e ben pochi ancora). “Solus ad solam” è in forma di diario la vicenda che d’Annunzio racconta nel “Forse che sì forse che no”: e il punto centrale è lo scontro tragico fra l’amore e la follia, la bellezza e la degradazione.

 

Curiosità

Le condanne al Libro segreto (1935) e al Solus ad solam (1939) furono gli ultimi due capitoli della lunga battaglia condotta dalla Santa Sede, nel corso di ben tre pontificati, contro un autore – Gabriele d’Annunzio – che si trovò a incarnare contemporaneamente almeno due tra le tendenze maggiormente temute dalla Chiesa: il sensualismo modernista e il superomismo di marca fascista che lo stesso Comandante, suo malgrado, aveva ispirato.

 

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Antologia del solus ad solam

Lettera del 31 agosto autografa

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Lettera del 31 agosto trascritta

31 agosto 1908.
Tutta la giornata di ieri passò in silenzio. Stamani la posta non mi ha portato nulla. Sono le tre del pomeriggio, e tu non
dài nessun segno. La tua ultima lettera del 28 diceva imminente la partenza. E soggiungeva: «Vorrei stabilirmi in qualche posticino tranquillo, dove ti potessi vedere…» E mi poneva nel cuore il sogno e la speranza della felicità. Attendevo da un attimo all’altro la parola di gioia; perché in tutte queste vicende io non ho guardato se non a una sola possibilità: a quella di averti finalmente tutta per me; e non ho avuto se non una sola pena: quella di sentirti sempre esitante.
Ah, povera piccola, dove ritroverai, dove ritroveremo una 
magìa d’amore così continua e così alta?
La sola presenza – sempre – bastava a darci l’oblio d’ogni altra cosa e a rinnovare perpetuamente la nostra ebrezza. L’ultima volta che ci siamo baciati – te ne ricordi? – la nostra commozione era più profonda di qualunque altra; e tu avevi il sentimento d’una passione che fosse nel suo culmine.

Che l’imagine notturna del tuo amico – giunto fino a te di là dall’ombra e dal pericolo – rimanga nell’anima tua e ti conforti e ti mostri la sola via da prendere!
Quanto ho pensato in questi giorni d’attesa terribile!

Nel centro del mio cuore è la certezza assoluta che non dobbiamo e non possiamo se non congiungere per sempre le nostre due vite. Qualunque altro pensiero è un sacrilegio contro l’amore e contro il passato.

Io ho bisogno di te, ho bisogno di riposarmi nella tua presenza continua, nel possesso perfetto. Il destino ti ha condotta sul mio cammino, e ora affretta gli eventi.

L’amore t’illumini. Il giuramento, rinnovato e suggellato nei giorni mistici, ti tenga lontano da ogni atto vile!

Comprendo il rammarico che ti punge. Ma non pensi alla divina armonia di quei giorni? Non pensi alla tua ripugnanza nel tornare verso il martirio? Non pensi al tuo pentimento di avermi lasciato andare dopo ore di così perfetta gioia, di così pura malinconia?

Ho dentro di me una cupa angoscia; e stamani ho guardato più volte il mio revolver con un senso di liberazione. Ignoro tutto, e questo silenzio ostinato è inesplicabile. Non comprendo come almeno la donna fida non riesca a mandarmi una qualunque parola di speranza o di disperazione.

Che accade? Dove sei? Che fanno di te? Sei tornata di nuovo sotto l’oppressione e l’imposizione?
Folle! Folle! Una sola cosa tu devi fare; ed è veramente, questa volta, il tuo «dovere» sacro: venire a me, correre a me, confidarti in me. Ti parlo con tutta l’anima mia. Ti offro di nuovo la mia vita in cambio della tua.

Vieni. Non temere di pesarmi. Tu sai il mio cuore. Saremo felici. Io saprò comporti un’esistenza di calda e profonda bellezza. Tu mi renderai tutto quello che ti ho dato, essendo la testimone e la protettrice del mio lavoro futuro.

Ho bisogno di lontananza e di silenzio; ho bisogno di ritrovare la voce della mia poesia, tenendo la tua mano nella mia mano come quel giorno in cui la musica di Beethoven ci trascinava sul fiume di tutte le cose belle.

Oggi si compie l’agosto: mese, per noi, di sofferenza e di gaudio.

Or è un anno, era per compiersi il sogno ardente di Brescia. Il soffio di Tristano passava su noi, nella notte… Te ne ricordi?

Ardentissimamente prego il fato, che ti renda a me, che ti suggelli con me, nell’anniversario. Non mi perdonerò mai d’esser fuggito, l’altro giorno, nell’intolleranza dell’ansia. Ero come folle, e la tua crudeltà mi pareva mostruosa. Volevo ripartire nella notte, non avendo pace; e un guasto alla macchina me l’impedì. Il presentimento mi mordeva il cuore.

Se avessi potuto vederti a Laterina, certo ora sarei felice, perché – te lo giuro – a nessun costo ti avrei più lasciata. Ora sarei felice in un luogo tranquillo, e placherei ogni tua inquietudine con la mia tenerezza invincibile. Tu la conosci, tu la conosci. 
Ricòrdatene!
Questa lettera ti giungerà? Le altre mie lettere, gli altri miei telegrammi ti son giunti?

Eccomi – te lo ripeto davanti all’anima mia, all’anima tua – eccomi tutto per te. Non ascoltare nessun’altra voce fuorché quella dell’amore, che sola è santa e giusta. Ti pentirai di tutto fuorché d’esser venuta a me, liberamente, fieramente. 
Pènsaci.
Ti amo. Non ho nessun pensiero che non sia tuo; non ho in cuore nessun desiderio che non sia per te; non vedo nella mia vita altra compagna, non vedo altra gioia.

Ti parlo con la sincerità più certa.

Prego la sorte che questa lettera giunga nelle tue mani perché tu raccolga la parola più vera e più possente ch’io ti abbia mai detta.

Bada a quel che fai! La tua trasgressione non sarà senza castigo.

Resta nella verità. O prima o poi sentirai che una sola cosa vale: il legame che ci lega; e che tutto il resto è vano e ingiusto e falso.

Te l’ho già detto una volta: l’aiuto non ti verrà se non dal tuo amico.

Voglio contenere il mio spasimo, e attendere ancóra un giorno.

Fossi domani sera con te, e guardassi con te la piccola luna di settembre, e dicessi con la bocca
su la tua bocca: «Mia, mia, mia, tutta mia, per sempre tutta tutta tutta mia!»
Ricòrdati che dinanzi all’altare del Crocifisso, in San Francesco, noi ci siamo sposati.
Gabri tuo.

TRAMA

D’Annunzio ha poco più di trent’anni (era nato il 12 marzo 1863), sa che l’amore della donna è conteso dalla sua condizione di moglie attesa nella sua casa. Spesso gli dichiara che deve tornare dal marito; teme di trovare, se la sera è troppo tardi, la porta sbarrata. A nulla vale la richiesta incalzante di lui di restare a vivere nella sua casa: «Chi ha mai posseduto una creatura umana come tu la possedevi? Non v’era un atomo che non ti appartenesse, in tutto il mio essere.»

Per solo dieci minuti, Gabri (così è chiamato dalla Giusini), arriva tardi ad un appuntamento (è la sera del 7 settembre 1908: «la sera della follia») e viene a sapere che la donna è stata condotta via da due uomini che indossavano una divisa. Che cosa può essere mai accaduto? Si mette alla sua ricerca, facendosi aiutare da un amico, Francesco. Niente: «Dov’eri? Dov’eri?»

Il diario ha la forza di un romanzo; i suoi ritmi coinvolgono il lettore. Dei due sconosciuti si viene a sapere che in realtà non erano affatto agenti di questura. E allora? Li ha mandati il marito, il conte Lorenzo Mancini? Si ha subito la sensazione di un rapporto d’amore tenebroso e contrastato. Lei è una debole amante; in una lettera del 31 agosto 1908 D’Annunzio le scrive: «non ho avuto se non una sola pena: quella di sentirti sempre esitante» (la parola esitante è addirittura sottolineata); lui, al contrario, non riesce a tenere a freno la sua passione. Nella stessa lettera del 31 agosto scrive: «stamani ho guardato più volte il mio revolver con un senso di liberazione.» E ancora: «Ricordati che dinanzi all’altare del Crocifisso di San Francesco, noi ci siamo sposati.» Si riferisce al loro viaggio a Perugia («Perugia, coronata di lune elettriche, splendeva sul colle») e pure qui le parole noi ci siamo sposati sono sottolineate.

Quella sera del 7 settembre, lei in mezzo alla strada, ancora incerta se recarsi all’appuntamento o tornare a casa, quei due sconosciuti l’hanno costretta a salire in carrozza e ricondotta al suo palazzo di via Benci, in Firenze. L’episodio ottenebra la mente della donna. D’Annunzio è informato del suo triste stato dal dottor Nesti, il medico di famiglia della poveretta. Non sa cosa fare per aiutarla. Scrive perfino al padre di lei, giunto a Firenze non appena venuto a sapere del fatto tragico.

Siamo negli anni in cui l’amore extraconiugale si doveva consumare nel buio, nel segreto delle alcove. Venuto alla luce, non v’era scampo per l’adultera e la società la metteva al bando.

L’opera mette drammaticamente in risalto questo aspetto doloroso del tempo, e il travaglio di coloro che ne erano coinvolti.

La donna poteva arrivare, come accade alla Giusini, a rasentare la follia. Una moderna lapidazione, un’agonia che durava tutta la vita. Oggi appare una vicenda davvero lontana, un reperto storico dei costumi: «l’amore non fu tanto grande da liberarla dei pregiudizi mondani», scrive un’amica del poeta, Maria Votruba.

D’Annunzio si adopera perché la Giusini non venga rinchiusa in manicomio. Il medico Eugenio Tanzi lo rassicura che «riacquisterà la ragione, guarirà in tempo non lungo.» Apprende che l’amata nel suo delirio lo considera un «nemico mortale» («non soltanto l’amore è morto ma s’è mutato in odio»), ha bruciato le sue lettere d’amore («Così potessimo bruciare chi le scrisse», inveisce una domestica della donna); il poeta fa di tutto per poterla vedere, ma il padre si oppone tenacemente.

Allorché dalla casa maritale viene trasferita nella casa del padre, in via Cherubini, non lontana dalla abitazione di D’Annunzio, questi più di una volta deposita sul davanzale di una finestra dei mazzi di ciclamini, che non giungono mai a destinazione. Non riesce a nascondere che, se ella l’avesse seguito, «di ritorno da Perugia», alla Versiliana, dove era ospite del conte Digerini Nuti «Ora saremmo felici, disdegnando tutto il resto: saremmo felici in una chiara villa sul Tirreno, coi nostri cavalli, coi nostri cani, con tutte le cose che amiamo, congiunti per sempre.»

Quando sente nostalgia della Versilia scrive: «Profumo della Versilia, fatto di pini, d’acque incanalate, di ginepri, di cuora, di alghe, qual profondità tu davi al mio respiro! Lunghe giornate di lavoro in cui non avevo se non una sola angoscia ma divina: l’angoscia della sovrabbondanza, l’ansia di scegliere fra troppe ricchezze! Ebbrezza del cervello, ebbrezza delle ossa e dei muscoli! Galoppi furibondi su la sabbia elastica ove erano le tracce delicate dell’onda ritratta, delicate come le righe dentro le fauci dei miei levrieri!» Troveremo altro spazio per la Versiliana in una delle lettere, quella pubblicata con la data 5 luglio 1906.

D’Annunzio ama andare a cavallo e portare con sé i suoi cani. Anche nell’Eremo di Settignano: «Rimonto a cavallo dopo circa tre mesi. Monto il buon Malatesta, il fedele, il sicuro. [ […]] Cavalco per le colline. Il respiro dell’autunno è nell’aria. La malinconia fumiga dalla terra bruna. Le piccole olive verdi mi sfiorano il viso, mentre passo lungo i poderi murati.»

È il D’annunzio migliore, libero dall’impeto e dallo strazio dei sentimenti. Il diario esprime il suo valore nei momenti in cui il poeta si libera del suo smarrimento e si guarda intorno. I luoghi in cui è stato con l’amata, Firenze in modo speciale, ne sono esaltati: «Cade l’ombra azzurra su la conca dell’Arno. Firenze è sotto un cumulo di cenere sfavillante. Cominciano a suonare le campane dell’Ave.»

Fa eccezione il ricordo di un’amica malata di un tumore ovarico, la marchesa di Rudinì, evocato sotto la data del 27 settembre 1908. La prosa è contenuta, il sentimento vi scorre lenito forse dal tempo trascorso: «Qui in questa casa, or è quasi quattro anni, vissi per mesi e mesi al capezzale di un’amica malata del più feroce male che possa devastare il grembo di una donna.»

Il libro si chiude con la pubblicazione di alcune lettere che D’Annunzio scrisse alla Giusini. Sono lettere da cui si scorge il fiorire a poco a poco di un rapporto più intimo. Il marito è nominato semplicemente con una L. Ci sono anche lettere indirizzate al dottor Nesti, medico curante della famiglia della contessa. Queste sono in sintonia con la disperazione del diario, e sono datate a partire da quel 7 settembre 1908 allorché la donna fu raccolta in strada dai due sconosciuti.

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