Luigi Pirandello

 LUIGI PIRANDELLO 

(Girgenti, Agrigento 1867 – Roma 1936) 

BIOGRAFIA

Premio Nobel nel 1934. La madre Caterina Ricci Gramitto, si era allontanata dalla casa di Girgenti per sfuggire al colera, rifugiandosi con la primogenita Lina in un podere di campagna chiamato “Caos”. Lì nasce Luigi Pirandello. Scherzando sul nome del podere, descriveva la sua nascita in questo modo: «io dunque sono figlio del caos». Sembra quindi dire che la sua esistenza (il suo «involontario soggiorno sulla Terra») porta impressi sin dall’inizio i segni del caso.

Nella madre trova confidenza e affetto, ma col padre Stefano ha un rapporto difficile.

I due sembrano appartenere a due mondi diversi:

  • il padre è un ex combattente garibaldino, abile commerciante di zolfo è per nulla incline a interessi di tipo intellettuale,
  • mentre Luigi è riflessivo, inadatto ai lavori pesanti e alle attività pratiche, quasi come un “figlio cambiato”, ovvero messo in una famiglia non sua (come il personaggio di una sua opera teatrale “La favola del figlio cambiato”).

Da bambino si appassiona alla lettura, nonostante l’unico libro in casa sia la Bibbia, e fatichi a procurarsi altri testi. Ascolta però rapito le favole del folklore siciliano, narrategli dalla serva di casa, e molte di queste saranno la base delle sue novelle.

Percorso scolastico

Il padre gli impone gli studi tecnico-commerciali perché spera di inserirlo nella sua attività. Alla fine del secondo anno però escogita uno stratagemma per passare al liceo: finge di essere stato rimandato, e con i soldi che il padre gli dà per le ripetizioni estive, prende lezioni di latino per poter sostenere gli esami per il ginnasio, con la complicità della madre. Il padre lo scoprirà mesi dopo e, grazie alla mediazione della moglie, rinuncia ad opporsi e consente al figlio di proseguire il liceo a Palermo, dove la famiglia si è trasferita per lavoro. Tra i 13 e i 18 anni legge di sua spontanea volontà i testi classici della letteratura latina, greca e italiana. Decide per questo di sacrificare le ore di sonno, coricandosi sul legno invece che sul materasso per leggere senza addormentarsi. È una manifestazione della forza di volontà e dedizione al lavoro, costanti nella sua carriera. Intanto si pone come obiettivo di diventare un poeta.

La distanza con il padre si fa più profonda, quando scopre che il padre tradisce la moglie con una cugina, da cui nascerà anche una bambina. Sebbene il padre decida di lasciare l’amante, Luigi diviene ancora più freddo nei suoi confronti e per anni non comunicheranno. Questi eventi saranno ricordati nella novella “Ritorno”, una sorta di vendetta nei confronti del padre. Nel 1886 Luigi si innamora di una cugina più grande e, molto bella e corteggiata. Riesce a conquistarla, ma la famiglia acconsente il fidanzamento solo a patto che lui, che aveva appena terminato gli studi, si unisca all’attività del padre. Accetta per amore l’incarico di pesare le partite di zolfo. L’esperienza però lo motiva ulteriormente a volgersi alla scrittura.

Dopo tre mesi è il padre spingerlo ad iscriversi all’università, imponendogli la facoltà di legge a Palermo. Pirandello obbedisce, ma contemporaneamente si iscrive anche quella di lettere. Con il pretesto di terminare più in fretta gli studi si trasferisce a Roma. Con il raffreddarsi dei rapporti con la cugina, si rende conto di volersi dedicare la scrittura senza il peso di un matrimonio così precoce.

Autunno 1887 Giunge alla Sapienza ma non rinnova l’iscrizione in legge. Si dedica esclusivamente alle lettere, dimostrando di apprezzare particolarmente la filologia romanza. Nel frattempo scrive dei testi teatrali che non riesce a pubblicare o mettere in scena, e compone poesie.

1889

  • Esce la sua prima raccolta di versi “Malgiocondo” che riunisce i testi scritti fino a quel momento.
  • In seguito ad uno scontro con i professori di latino, si attira l’espulsione per intemperanze.

Si trasferisce allora all’università di Bonn, dove insegnano il più aggiornati specialisti in filologia romanza. Resterà in Germania un anno e mezzo lamentandosi per la dipendenza economica dal padre, ma riuscendo a stabilire buone relazioni sociali in un ambiente universitario aperto ed informale, diverso da Roma e Palermo. Intanto ha una relazione con la figlia della sua padrona di casa, Jenny Schulz-Lander, senza mai farle alcuna promessa, in accordo con lei.

Marzo 1891 riesce a laurearsi con una tesi intitolata “Suoni e sviluppi si suono nella parlata di Girgenti”.

Poi rientra in Sicilia e pone fine al fidanzamento con la cugina. Ormai libero si trasferisce a Roma per fare lo scrittore, e grazie all’appoggio di Luigi Capuana muove i suoi primi passi componendo poesie, novelle, commedie e drammi, oltre che un romanzo “Marta Ajala”, pubblicato anni dopo con il titolo “L’esclusa”. Non trova però un editore. Non vuole insegnare perché gli sembra riduttivo rispetto all’impegno letterario. Il poco che riesce a guadagnare gli giunge da collaborazioni giornalistiche. Per mantenersi è costretto a chiedere il denaro al padre. La situazione economica finisce con l’esasperarlo, tanto da prendere in considerazione i vantaggi di un matrimonio con una donna ricca. Viene combinato un matrimonio tra famiglie legate al commercio dello zolfo, che attraverso il matrimonio dei figli garantivano la tutela dei reciproci interessi.

Gennaio 1894 Pirandello sposa Antonietta Portulano. La dote della donna è affidata alla gestione di Stefano Pirandello, che la utilizza per i suoi investimenti nelle miniere di zolfo. Alla coppia, che si trasferisce a Roma, viene riservata mensilmente una quota delle rendite.

Nello stesso anno esce la sua prima raccolta di novelle “Amori senza amore”. Pirandello aveva sperato di fare di Antonietta una compagna nel suo percorso artistico, ma scopre che lei, graziosa e buona padrona di casa, è tuttavia ingenua e incolta e non è in grado di seguire il marito nella sua ricerca letteraria. Nel giro di pochi anni nascono 3 figli: Stefano nel 1894, Lietta Rosalia nel 1897 e Fausto nel 1899.

Antonietta mostra i primi segni di fragilità psichica, attribuiti però alla debilitazione fisica per i frequenti parti. Con i figli le rendite della dote non bastano più e Pirandello deve dedicarsi anche all’insegnamento, ottenendo una cattedra all’istituto superiore di magistero di Roma nel 1897, che manterrà per oltre vent’anni. Svolge la professione con serietà e rigore, ma comunque senza passione perché sottrae tempo all’attività letteraria.

1903 La famiglia deve affrontare un momento di crisi. La zolfara (in cui era stata investita la dote) si allaga e il danno è irreparabile. Alla notizia Antonietta è colta da una paralisi e perde per sempre il controllo di sé, sentendosi inutile senza più una dote.  Anche Pirandello è disperato e nei giorni successivi ipotizza il suicidio, pensando così di obbligare il suocero a riprendere con sé e occuparsi di Antonietta e dei figli.

Lo conforta però la solidarietà degli amici romani che dirigono le principali riviste del tempo. Dal momento che iniziano a pagargli le novelle già pubblicate e a commissionargli nuovi testi, si immerge nel lavoro senza sosta. Inizia anche a dare lezioni private di italiano e tedesco, si occupa di traduzioni, senza smettere la produzione di opere nuove. Gli viene richiesto un romanzo da pubblicare a puntate sulla rivista “Nuova Antologia”, e nel giro di pochi mesi dà alle stampe “Il fu Mattia Pascal”. Il libro è un successo, tanto che viene presto tradotto in Francia e Germania.

1909

  • Le condizioni di salute della moglie peggiorano dopo il 1909
  • Anno della morte del padre di lei (della moglie). La sua malattia si manifesta come gelosia ossessiva nei confronti del marito, con scoppi d’ira e periodi di muta apatia. Questo spinge Pirandello a leggere le opere di Sigmund Freud e a interessarsi alla psicanalisi.

1919 Antonietta aggredisce la figlia, scambiandola per un’ipotetica amante del marito. Pirandello quindi la farà ricoverare in un ospedale psichiatrico, dove rimarrà fino alla morte nel 1959.

Pur lavorando in tali condizioni, Pirandello che è ormai un autore affermato, porta a termine moltissime opere, tra cui:

il saggio “L’umorismo” del 1908; i romanzi “Suo marito” del 1911 e “Vecchi e giovani” del 1913; numerose novelle pubblicate su riviste come “Il Marzocco” “Nuova Antologia” e sui quotidiani (collabora con il “Corriere della Sera” dal 1913 fino alla morte). Scrive testi teatrali per lo più ricavati da novelle. Lavora a un nuovo romanzo “Si gira” del 1915, ambientato nel mondo del cinema, e che avrà una seconda edizione 10 anni dopo con il titolo “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”. Scrive anche parte di “Uno, nessuno e centomila”, che terminerà solo nel 1925.

1915 il primogenito Stefano, partito volontario per il fronte, viene ferito e catturato dagli austriaci, che lo portano prima a Mauthausen e poi in Boemia. Pirandello che si era schierato tra gli interventisti per la prima guerra mondiale, cerca di ottenere uno scambio di ostaggi, ma il governo di Vienna, vista la notorietà dello scrittore, pretende tre generali caduti in mani italiane, e il governo italiano lo trova inaccettabile. Anche Fausto viene chiamato alle armi, ma sarà presto congedato per problemi polmonari.

Lietta invece è costretta a trasferirsi presso un parente, perché la madre nella sua follia, non riconoscendola più l’aveva accusata di volerla avvelenare per avere campo libero con suo marito. Alla fine della guerra Stefano riesce a tornare a casa, a quel punto su pressione dei figli, Pirandello riesce a fare internare Antonietta nella clinica psichiatrica.

Pirandello cercando di dimostrare il suo affetto verso i figli, interviene spesso in maniera invasiva nella loro vita, tanto che tentano di sottrarsi in ogni modo.

  • Lietta si sposa e poi si trasferisce in Cile.
  • Fausto, pittore, va a vivere a Parigi per studiare gli artisti contemporanei.
  • Stefano, autore di poesie e di testi teatrali, adotta lo pseudonimo Stefano Landi, per sfuggire al confronto diretto con il padre. Dato che la sua carriera non decolla in maniera autonoma, accetta di restare nell’ombra paterna, curando la pubblicazione delle opere del padre dopo la sua morte.

Nonostante ciò recupera un rapporto più tollerante con il proprio padre: dal 1923 lo accoglie stabilmente a casa propria, tornando a chiamarlo con il nome di padre con la P maiuscola. Stefano Pirandello muore quasi novantenne nel 1924 e Luigi ne dispone la sepoltura nella tomba di famiglia, a segnare la definitiva riconciliazione.

1915 Pirandello si dedica prevalentemente alla produzione di opere teatrali, messe in scena dalle più importanti compagnie nei teatri di Milano, Roma e Torino.

1917 pubblica “Così è (se vi pare)”. Intanto l’editore Treves di Milano procede nella pubblicazione in volume di tutte le novelle apparse su riviste, e raccoglie le opere teatrali in una serie di libri dal titolo “Maschere nude”.

1921: Quando viene messo in scena il dramma “Sei personaggi in cerca d’autore”, il pubblico inferocito era diviso tra sostenitori e detrattori di Pirandello. È quindi costretto a scappare di nascosto. Mesi dopo a Milano l’opera ottiene invece un successo straordinario, riconosciuta come momento di svolta del teatro del 900.

1922 Anche “Enrico IV” si rivela un trionfo, e le opere di Pirandello cominciano a essere tradotte e rappresentate a Londra, a New York e a Parigi. Tra il 1922 e il 1924 Pirandello sarà protagonista di una tournée in tutta Europa.

Il rapporto col Fascismo

•1924 Pubblica una lettera sul quotidiano “L’impero”, con cui chiede pubblicamente a Mussolini la tessera del partito fascista. La sua adesione al fascismo, pochi mesi dopo l’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti a opera degli squadristi, suscita un’ondata di polemiche. Il capo dell’opposizione Giovanni Amendola lo accusa di aver agito spinto dal desiderio di ottenere una nomina in senato. Un gruppo di scrittori di orientamento fascista reagì invece con un manifesto di protesta in sua difesa.

•Pirandello sarà anche tra i firmatari del “Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni”, redatto a Bologna il 29 e il 30 marzo del 1925, e pubblicato il 21 aprile (data non casuale, coincide con il natale di Roma) dello stesso anno. Tra i nomi dei firmatari possiamo leggere anche i nomi di D’Annunzio, Marinetti e Ungaretti.

•Di fatto però non ha ottenuto grandi vantaggi: finanziamenti modesti per il suo teatro d’arte, la nomina ad accademico d’Italia nel 1929 come anche Marinetti, il sostegno soltanto nominale di Mussolini a promuoverlo come portavoce della cultura italiana nel mondo.

•Secondo Leonardo Sciascia, le ragioni dell’adesione di Pirandello al fascismo, sono invece da ricercarsi nella delusione di chi, proveniente da una famiglia garibaldina e antiborbonica, ha assistito al fallimento degli ideali risorgimentali, traditi da una classe politica che ha finito con l’adagiarsi nell’ozio e nella corruzione. Di tale stato d’animo da testimonianza anche il romanzo “Vecchi e giovani” del 1913.

Nel 1924 Mussolini sembra dunque a Pirandello l’uomo che incarna l’energia necessaria a imprimere una svolta all’Italia. Pirandello non rinnegherà mai apertamente la sua scelta, ma nel tempo il suo atteggiamento nei confronti del fascismo diventerà sempre più critico.

1934 Ad esempio apparirà la novella “C’è qualcuno che ride”, interpretabile come satira grottesca di un’adunata fascista. Anche la “Favola del figlio cambiato”, che provoca una reazione ostile da parte dei fascisti, che vedono un attacco a Mussolini nel personaggio del Re goffo e deforme.

1925 Assume la direzione artistica del teatro d’arte di Roma, struttura che intende collocarsi a metà strada fra tradizione e sperimentazione, ed è stata fondata dal figlio Stefano insieme con altri giovani autori. Tiene delle vere e proprie lezioni, nelle quali impone agli attori di trasformarsi nei personaggi: se i personaggi sono come state create dall’autore, l’attore deve limitarsi a metterlo in movimento senza alterarle con la propria soggettività. Pirandello apprezza particolarmente una giovane attrice, Marta Abba, capace di divenire davvero ciò che l’autore chiede. Lei diventerà per Pirandello compagnia ispiratrice e interprete prediletta. Il teatro d’arte invece chiuderà nel 1928 per mancanza di fondi.

1934 Pirandello viene insignito del premio Nobel per la letteratura, per il suo rinnovamento dell’arte drammatica e teatrale. La candidatura era stata presentata da Guglielmo Marconi, a sua volta Nobel per la fisica nel 1909.

Negli ultimi anni Pirandello si occuperà della trasposizione cinematografica di alcune delle sue opere.

1936 si ammalerà invece di polmonite e morirà il 10 dicembre dello stesso anno, mentre terminano le riprese per la versione cinematografica de Il Fu Mattia Pascal. Nelle sue disposizioni testamentarie così scrive «bruciatemi perché niente, neanche la scendere vorrei che restasse di me».

L’urna greca in cui inizialmente erano state deposte le sue ceneri, era a sua volta stata deposta nei pressi di un cippo ai piedi di un pino, il cosiddetto “pino di Pirandello”. Questo non esiste più perché è stato gravemente danneggiato dal nubifragio del 1997. A Caos, presso Agrigento, si trova la tomba di Pirandello.

OPERE: L’umorismo

In polemica con il critico Benedetto Croce, che in un articolo del 1903 aveva ritenuto impossibile definire l’umorismo, Pirandello scrive nel 1908 un saggio in cui espone le sue considerazioni sull’argomento. Il testo intitolato appunto l’umorismo è dedicato alla buonanima di Mattia Pascal bibliotecario, ossia il protagonista del romanzo che nel 1904 aveva finalmente attirato su Pirandello l’interesse della critica e del pubblico. Mattia Pascal è un personaggio contraddittorio che suscita al tempo stesso sorriso e compassione per la sua vicenda umana davanti alla quale lettore resta sospeso in una sorta di perplessità. Sono appunto alcuni tra gli elementi che per Pirandello costituiscono l’essenza dell’arte umoristica.

L’opera è strutturata in due parti:

  • nella prima lo scrittore analizza il significato del termine umorismo nelle varie lingue europee, avvalendosi anche delle competenze filologiche acquisite durante gli studi universitari
  • nella seconda definisce le caratteristiche proprie dell’umorismo con abbondanza di riferimenti filosofici e letterari, ma servendosi anche gli esempi concreti per illustrare in modo semplice il suo pensiero

Prima parte

Secondo Benedetto Croce le parti riflessive sono da considerarsi del tutto estranee a un’opera d’arte, sono anzi da trascurare.

Croce distingue tra

  • ciò che è poesia, ossia prodotto autentico della creazione artistica,
  • e le parti superflue, quelle in cui prevale il ragionamento che definisce non poesia.

Per Pirandello nell’arte umoristica, la riflessione

  • Assume un ruolo determinante nel processo creativo perché analizza e scompone la realtà.
  • È da presentare al lettore, suscitando in lui una particolare reazione che lo scrittore chiama «sentimento del contrario». Per capire che cosa sia questo sentimento del contrario, Pirandello introduce il personaggio di una vecchia signora truccata e adornata oltre la giusta misura.

P.168 (Contesti letterari 6)

r.31 «Vedo una vecchia signora con i capelli tinti più volte tutti unti non si sa di quell’orribile sostanza e poi tutta giustamente imbellettata e parata con abiti giovanili. Mi metto a ridere. Percepisco che quella vecchia signora è il contrario (avvertimento del contrario) di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così a prima vista e superficialmente fermarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione e mi suggerisce che questa vecchia signora forse non prova nessun piacere a combinarsi così come un pappagallo, ma che forse addirittura ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, così combinata, nascondendo in tal modo le rughe e i capelli bianchi, riesca a trattenere per sé l’amore del marito, molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andare oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto più addentro: da quel primo avvertimento del contrario, mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico.»

  • Comico = avvertimento del contrario
  • Umorismo = sentimento del contrario (quando subentra la riflessione)

•In un altro passaggio Pirandello precisa «vorremmo ridere, ma il riso proprio non ci viene alle labbra schietto e facile, sentiamo che qualcosa ce lo turba e ce lo ostacola. Nasce così un senso di commiserazione di pena per il personaggio e di partecipazione con la sua vicenda umana e dunque dall’unione tra percezione e riflessione.

•Dai personaggi umoristici presenti nella letteratura europea, Pirandello cita ad esempio l’ubriacone Marmeladov, che nel romanzo “Delitto e castigo” di Fedor Dostoevskij tanto di raccontare la sua triste storia al protagonista Raskolnikov, mentre gli avventori di un’osteria ridono senza prenderlo sul serio. Nel grido con cui Marmeladov reclama l’attenzione, Pirandello vede la protesta dolorosa ed esasperata di un personaggio umoristico, contro chi di fronte a lui si ferma a un primo avvertimento superficiale e non riesce a vederne altro che la comicità.

Altri personaggi di questo tipo sono Don Chisciotte, protagonista del romanzo di Miguel de Cervantes e Don Abbondio nei “Promessi sposi” di Alessandro Manzoni.

•Pirandello afferma che il lettore, davanti a tali personaggi prova uno stato d’animo di perplessità, che si sente come diviso tra sensazioni opposte: vorrebbe ridere, e lo fa, ma il riso è turbato da qualcosa che viene ispirato dalla rappresentazione stessa.

Don Chisciotte ad esempio prende molto seriamente il suo ruolo di cavaliere difensore degli oppressi, che appare invece al lettore del tutto fuori dal tempo e ridicolo. Tuttavia il lettore stesso non può fare a meno di riconoscere che, nella sua folle convinzione, risulta amaramente eroico. Allo stesso modo un personaggio timoroso e comico quando si mostra eccessivamente preda della paura.

Ma quando uno che per natura vorrebbe evitare tutti i contrasti, come appunto Don Abbondio, si trova coinvolto in una vicenda in cui ha veramente motivo di aver paura, non risulta più soltanto comico. Il lettore attento non può esimersi dal compatirlo, riconoscendo in lui le debolezze proprie di tutti gli uomini.

La riflessione di cui parla Pirandello non è un elemento inserito artificialmente nell’opera a posteriori, e secondo un progetto calcolato, ma è un particolare modo dello scrittore di rapportarsi con il mondo e con gli uomini. Lo scrittore, come il personaggio umoristico, si pone di fronte alla realtà come uno strumento musicale dissonante rispetto agli altri che compongono l’orchestra, e persino in momenti diversi rispetto a sé stesso. La sua voce non fa altro che evidenziare contrasti e risulta pertanto amaramente comica.

Seconda parte

Nella seconda parte del saggio di umorismo Pirandello introduce i concetti di vita e forma, elementi fondamentali di tutta la sua poetica.

  • La vita è considerata in perpetuo divenire, inafferrabile e irriducibile.
  • La forma è invece la struttura esteriore, vale a dire il proprio ruolo nel mondo e nella famiglia, il carattere, il nome stesso e le idee che siano del mondo e degli altri, in cui l’uomo tenta vanamente di ingabbiare la vita per renderla coerente e comprensibile. Gli uomini sono perennemente diversi da sé stessi e tuttavia sono convinti di avere un’identità stabile, riconoscibile dagli altri e univoca. In realtà la loro è una forma vuota, una maschera che consapevolmente o meno ciascuno attribuisce a sé e dagli altri riceve. In tali forme la vita si irrigidisce.

Possiamo cogliere in questo passaggio l’influenza esercitata da Pirandello da un saggio pubblicato nel 1892 dal filosofo e psicologo Alfred Binet “Le alterazioni della personalità” in cui lo scrittore indaga sulla compresenza di livelli diversi di vita psichica, consci o inconsci, sostenendo la pluralità dell’io, in cui possono convivere varie e diverse personalità. Nell’interiorità dell’uomo la vita continua a fluire in modo prepotente e talora si scontra con i limiti stabiliti dalle forme. Quelle forme in cui ciascuno credeva di potersi identificare, mostrano così tutta la loro assoluta inconsistenza. La scoperta di non avere una personalità compiuta e coerente riguarda, non soltanto le anime irrequiete, ad esempio i folli che sfuggono ad ogni classificazione, ma chiunque anche chi è convinto di conoscere sé stesso, è esposto alla sconvolgente scoperta di non essere ciò che crede, poiché il flusso incontrollabile della vita agisce in tutti.

Le forme in cui cerchiamo di arrestare in noi questo flusso continuo, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, ma in ciò che noi chiamiamo anima il flusso invece continua indistinto, oltre i limiti stessi che noi ci imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità.

Qui non possiamo non cogliere il riferimento alle convinzioni di Henri Bergson, Nobel la letteratura nel 1927. Pirandello s’ispira fondamentalmente a due dei suoi saggi:

  • “Il riso. Saggio sul significato del comico” del 1900;
  • “Saggio sui dati immediati della coscienza” del 1889 (concetto di tempo come durata). Bergson asserisce che «un’ora non è soltanto un’ora, ma deve essere interpretata come un vaso colmo di profumi, di suoni, di progetti, di climi.

Neppure per Pirandello la percezione del tempo è lineare, la vera dimensione del tempo è solo ed esclusivamente soggettiva. L’uomo dunque per Pirandello è un insieme di contraddizioni di elementi contrastanti e incoerenti.

Caratteristica specifica dell’umorismo è proprio la scomposizione, ossia la tendenza mostrare contemporaneamente più aspetti della realtà e della natura di un personaggio evitando semplificazioni forzate. Se l’epica e la letteratura tradizionale in genere, mira a creare figure coerenti, unitarie e concluse, l’umorismo presenta invece gli uomini e le donne nella loro complessità e mutevolezza irriducibile.

Pirandello procede dunque nella stessa direzione che porterà nei primi decenni del Novecento, alcuni scrittori europei come Marcel Proust, James Joyce, Virginia Woolf, Franz Kafka Robert Musil a rivoluzionare la forma tradizionale del romanzo e l’idea stessa del personaggio. Nelle loro opere la realtà interiore prende il sopravvento su quella esteriore e una rappresentazione organica, coerente e compiuta dell’individuo e del mondo diviene del tutto impraticabile.

Nell’arte umoristica

  • le cause delle azioni umane non sono mai facilmente individuabili e separabili le une dalle altre;
  • la personalità non è qualcosa di definito, ma una sorta di magma fluido inafferrabile che agisce sulla base di istinti e tensioni contrastanti.

Nelle opere artistiche tradizionali gli elementi vengono selezionati e strutturati in modo coerente. Ma la vita nuda, la vera vita secondo Pirandello, è lontanissima da tali semplificazioni, e può essere rappresentata in forma narrativa soltanto attraverso contraddizioni, interruzioni e digressioni, che sono specifici tutti quanti dell’opera umoristica.

Per Pirandello l’umorismo non è soltanto oggetto di una riflessione saggistica, elemento fondamentale della poetica. In tutte le sue opere che si tratti di novelle, di romanzi o anche di opere teatrali si assiste infatti alla commistione inscindibile tra elementi comici e riflessione tragica.

L’antitesi irriducibile tra vita e forma è alla base stessa della concezione pirandelliana dell’esistenza.

Pirandello prende dunque le distanze dalla visione positivista della realtà. Secondo lo scrittore umorista non è infatti possibile arrivare ad una conoscenza oggettiva e univoca del mondo e dell’uomo, poiché ogni conoscenza dipende dalla percezione del soggetto. Tale approccio è definito dai critici ‘relativismo conoscitivo o gnoseologico’, in quanto non esiste una sola verità dimostrabile per tutti, ma essa è tale soltanto in relazione all’io che la pensa.

In questa prospettiva i ruoli, i valori, le certezze, sono anche si considerati convenzioni, non hanno validità universale ma unicamente soggettiva e per questo non sono condivisibili e nemmeno comunicabili. Le parole sono infatti fonte di inevitabili malintesi, perché non assumono mai un senso univoco.

L’uomo tuttavia cerca un modo per vivere con gli altri, ciascuno indossa inconsapevolmente una maschera, si costruisce una forma che lo renda riconoscibile a chi gli sta intorno in tal modo si illude di vivere in modo autentico e di essere libero. Tali forme si rivelano però soffocanti trappole. La famiglia, le relazioni amorose, lavoro impiegatizio piccolo-borghese o quello di professionista fermato richiedono di riconoscersi in precisi ruoli, di recitare, come personaggi di teatro, vere e proprie parti, che paralizzano senza lasciare spazio di libertà. Molti attraversano l’esistenza continuando a recitare la propria parte, senza capire il gioco. Ma vi sono altri personaggi che riescono ad osservarsi come dall’esterno e diventano consapevoli del meccanismo artificiale e privo di senso in cui sono inseriti.

I personaggi di Pirandello arrivano a questa improvvisa consapevolezza della propria condizione di prigionieri, attraverso fatti spesso insignificanti:

  • il protagonista della novella “la carriola” ha una sorta di rivelazione nel momento in cui, rincasando, fissa il proprio nome e i propri titoli sul campanello di casa li legge e non si riconosce in colui che li porta.
  • L’impiegato Belluca invece nella novella “Il treno ha fischiato” si rende conto delle proprie insopportabili condizioni di vita semplicemente ascoltando il fischio di un treno.
  • Al protagonista del romanzo uno nessuno e centomila, è sufficiente che la moglie faccia un’osservazione particolare su un dettaglio insignificante relativo al naso, a cui lui però non aveva mai fatto caso, per accorgersi che gli altri hanno di lui una visione limitata e distorta

La sensazione che l’uomo prova quando scopre di indossare una maschera che non coincide e non potrà in fondo mai coincidere con la vita autentica, è come di vertigine, come di chi si trovi improvvisamente sospeso sul vuoto. Tutto ciò che fino a quel momento appariva razionale, si rivela improvvisamente per quello che è, fittizio e insensato.

  • La prima reazione è il tentativo di cancellare questa scoperta far finta di nulla, ma ingannare sé stessi ormai non è più possibile.
  • Un’altra frequente reazione nei personaggi pirandelliani è quella di fuggire dalla forma stessa, ad esempio Mattia Pascal pensa inizialmente che sfruttando le combinazioni del caso, sia possibile cancellare la propria forma precedente, per la quale egli è un inetto disprezzato dalla moglie e tiranneggiato dalla suocera, e inventarne una nuova per poter vivere finalmente una vita libera e piena.

Ben presto però egli scopre che una nuova identità, un passato inventato e un presente da scegliere, non è che un’altra maschera ancora più limitativa e artificiale che gli rende impossibile fare davvero ciò che desidera, ad esempio acquistare un cane, sposarsi con un’altra donna, denunciare un furto etc.

Anche il tentativo di rientrare nella forma originaria, quella precedente, si rivela un fallimento, poiché la vita nel frattempo ha continuato il suo flusso inarrestabile. Le condizioni di partenza sono cambiate e al personaggio non resta che guardare dall’esterno la vita propria e quella degli altri, divenendo quello che Pirandello chiama un forestiero della vita.

  • Vi sono alcuni personaggi poi che cercano un compromesso. Nell’impossibilità di rifiutare del tutto la forma, tentano di ritagliarsi piccoli momenti di libertà attraverso l’immaginazione, per poi riprendere il proprio ruolo ordinario. È quanto viene all’impiegato Belluca che, al termine della novella “Il treno ha fischiato”, spiega che si accontenterà di evadere ogni tanto dalla sua prigione lavorativa e familiare sognando ad occhi aperti di trovarsi in luoghi esotici o solitari, ma che poi tornerà a svolgere le sue monotone e pesanti mansioni d’ufficio e ad occuparsi della sua numerosa famiglia.
  • Un’altra soluzione parziale è quella di concedersi azioni bizzarre e incoerenti, purché all’insaputa di tutti. Se infatti gli altri vedessero il personaggio agire in quel modo, lo riterrebbero pazzo. Dunque se egli non vuole compromettere la sua relazione con il mondo è obbligato ad agire in segreto. Il protagonista della novella “La carriola”, avvocato affermato, professore di diritto, padre autorevole e marito integerrimo, fa ogni tanto un gioco ridicolo con la sua cagnetta per rendere più sopportabile il peso dei suoi ruoli ufficiali, deve però chiudersi a chiave nello studio e agire di nascosto, altrimenti la sua immagine perderebbe ogni credibilità agli occhi altrui.
  • Accade anche che l’uomo divenuto consapevole del carattere illusorio della realtà e dei valori umani, possa arrivare a rifiutare completamente ogni forma. Ma in questo caso si ritrova solo estraneo al mondo e a sé stesso, poiché nemmeno l’idea che ha di sé è autorizzata ad esistere e ad affermarsi. È l’approdo estremo del romanzo “Uno nessuno e centomila”, il cui protagonista alla fine è costretto a rinunciare perfino al proprio nome. La possibilità di interpretare ogni volta una parte diversa, liberamente, spudoratamente e di prendersi gioco delle reazioni altrui, è una prerogativa riservata soltanto ai folli. La pazzia anche quella simulata, consente di dire ciò che si vuole, di denunciare l’ipocrisia, di sottrarsi agli obblighi connessi al proprio ruolo ordinario. Tuttavia anche la pazzia può irrigidirsi in una forma e divenire una trappola a cui è impossibile sfuggire, come accade nel dramma ‘Enrico IV”.

OPERA: Novelle per un anno

Pirandello scrive novelle da quando aveva 17 anni fino alla fine della sua vita. La sua prima novella è stata nel 1884 “La capannetta”, l’ultima “gli effetti di un sogno interrotto del 1936.

Al contrario per gli altri generi che l’autore lascia da parte, nei confronti delle novelle lo scrittore mostra una grande fedeltà. Le novelle costituiscono per Pirandello un serbatoio inesauribile di idee, la possibilità di sperimentare situazioni e delineare personaggi, che poi tornano talvolta con ruoli di primo piano o comparsa all’interno di altri generi letterari, come le tante novelle trasformate in atti unici o in commedie con lo stesso titolo.

A dimostrazione del fatto che per Pirandello le novelle sono il luogo privilegiato della sperimentazione è sufficiente leggere gli ultimi testi scritti tra il 1931 e il 1936 perché vi si intravedono elementi che danno spazio all’inconscio e alla dimensione razionale con una scrittura che si avvicina al surrealismo e che, secondo gli studiosi, costituirebbe il preludio di una nuova fase nella produzione pirandelliana, interrotta però dalla morte dell’autore.

Se per molto tempo Pirandello pubblica le novelle singolarmente su giornali e riviste, oppure riunite in brevi raccolte, a partire dal 1922 inizia un progetto ambizioso, che è insieme di sistemazione di quanto già scritto e innovazione: la pubblicazione di “Novelle per un anno”, ossia una serie di 24 volumi che avrebbero dovuto contenere 365 novelle, in parte già edite, in parte rielaborate e in parte totalmente nuove. Prima della morte Pirandello riuscirà a realizzare 15 volumi (il 15esimo esce postumo nel 1937) per un totale di 225 novelle. Ogni singolo volume trae il nome dalla prima delle 15 novelle che comprende tranne l’ultimo, che assume invece quello dell’ultima novella antologizzata “una giornata”.

TITOLO: Nella sua avvertenza Pirandello aggiunge alcune precisazioni in merito alla scelta del titolo generale dell’opera. Egli intende stabilire un legame con le principali opere della tradizione novellistica che distribuivano la narrazione delle novelle in un preciso arco temporale, di cui egli però estende la durata. Non intende infatti limitarsi a singole notti come nella novella “le mille e una notte”, né a 10 giornate come aveva fatto Boccaccio nel “Decameron” e designa come unità di misura un intero anno.

ELEMENTI. La raccolta pirandelliana:

  • Presenta un orizzonte temporale che appare privo di una specifica ragione narrativa.
  • Non è prevista alcuna cornice o un particolare anno;

Il legame tra i singoli testi e i mesi con le stagioni non è individuato, pertanto:

  • Semplicemente le novelle si succedono l’una dopo l’altra fino a raggiungere, almeno nelle intenzioni, la quota di 365, ossia una al giorno.
  • La disposizione non segue nemmeno l’ordine cronologico con cui sono state composte le novelle né è possibile individuare un criterio tematico che le accomuni.
  • L’impressione è piuttosto quella di trovarsi di fronte a un labirinto in cui alcuni elementi si ripetono senza però offrire indicazioni per una strada privilegiata.
  • Non è possibile riconoscere un ordine ed è il caso a dominare, come appunto, secondo Pirandello, avviene nella vita, continuamente scardinata dai venti imprevedibili e inafferrabili.
  • Le singole novelle non sono dunque che frammenti che riflettono in maniera parziale ma significativa la concezione pirandelliana della vita.

Convenzionalmente la produzione novellistica di Pirandello viene suddivisa in due blocchi:

  • la produzione giovanile, che include le cosiddette novelle veriste composte anteriormente al 1908, e quindi al saggio “Umorismo”, le comiche (la giara), e le liriche (Ciaula scopre la luna 1912, con la quale la critica ha messo in evidenza riferimenti puntuali con il canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi);
  • la produzione della maturità, che è contrassegnata dalla cosiddetta narrazione a tesi, ad esempio la novella “il treno ha fischiato”.

Nelle novelle veriste è possibile rilevare riferimenti a Giovanni Verga e a Luigi Capuana, il quale fu amico di Pirandello e lo introdusse negli ambienti letterari della capitale.

Analogie con la produzione verista, in quanto appaiono:

  • Gli stessi luoghi del verismo, come la Sicilia e Roma.
  • Personaggi simili, come le figure di mariti, mogli, amanti, figli orfani, impiegati infelici sono ricorrenti,
  • Le situazioni come matrimoni, suicidi, tradimenti, malattie e difficoltà economiche.

Mentre però il narratore verista si immerge nella realtà e la rappresenta oggettivamente, il narratore umorista ritiene che la realtà non possa essere rappresentata in modo oggettivo e definitivo e mette in scena eventi che appaiono inspiegabili secondo la logica comune, personaggi che all’improvviso non corrispondono più al proprio ruolo, alla maschera che hanno da sempre indossato, un mondo sfuggente, provvisorio e inafferrabile. Nella prospettiva dell’autore umorista, inoltre, ogni figura non trae significato dal contesto storico-sociale in cui è inserita, ma diviene metafora di una condizione esistenziale riferibile a tutto il genere umano.

Nelle novelle della maturità questo carattere si accentua, in quanto i personaggi:

  • Con un fatto banale, chiamato da Pirandello “accidente”, scoprono l’artificiosità dell’esistenza. Si arrestano allora come sospesi, o reagiscono in un modo che agli altri sembra del tutto folle perché contrario alle attese. Cercano possibili compromessi, o  li rifiutano radicalmente arrivando a estraniarsi dal mondo o al suicidio, che diviene quindi protesta contro il destino, la falsità le ipocrisie altrui.
  • vivono spesso in un mondo chiuso, soffocante, da cui cercano una via di scampo,
  • sono imprigionati in una trappola la famiglia, il lavoro, il ruolo sociale che impedisce loro di vivere una vita autentica,

La contrapposizione tra gli opposti è proprio il tratto più frequente nelle novelle. Si fronteggiano sincerità e finzione, follia e saggezza, passione e imperturbabilità, senza che sia possibile intravedere punti di riferimento stabili.

Ogni sistemazione delle conoscenze è soltanto provvisoria perché le verità sono tutte parziali, soggettive, notevoli. Non è possibile cogliere leggi universali di causa-effetto. Il caos non può trasformarsi all’improvviso in cosmos, in ordine, in un mondo razionale conoscibile e dotato di senso. L’affastellarsi senza ordine di fatti e vicende umane costituisce in fondo nient’altro che l’allegoria dell’inafferrabilità e dell’enigmaticità dell’esistenza

OPERE: Novella “il treno ha fischiato” 1912 (pagina 180)

La vicenda inizia in medias res sorprendendo il lettore. Alcuni personaggi citano misteriosi termini medici che rimandano al tema della malattia mentale. Si apre una sorta di enigma: di chi stanno parlando? Che cosa è capitato a questo sconosciuto e perché?

Soltanto qualche rigo dopo compare finalmente il nome del protagonista nell’espressione “povero Bellucca”. Ma chi è Bellucca? Mite e ligio contabile vessato dai colleghi, un giorno si presenta a lavoro e trascorre il tempo senza fare nulla. Ai rimproveri del capoufficio reagisce con frasi che sembrano prive di senso, ripete che il treno ha fischiato e afferma furiosamente di non poter più essere trattato come prima. Creduto pazzo è ricoverato a viva forza in un ospedale psichiatrico.

L’io narrante della novella, suo vicino di casa, suggerisce però che non si tratta di una follia ma della reazione naturale a condizioni di vita insostenibili. Bellucca infatti, oltre a svolgere un lavoro ripetitivo tra colleghi ostili, deve provvedere a una famiglia numerosa e disgraziata. Il narratore giunto in ospedale, apprende da Bellucca steso la causa scatenante della crisi: due notti prima, sentendo il fischio di un treno, egli si era improvvisamente reso conto che fuori dal suo angusto orizzonte il mondo continuava ad esistere. Abbandonatosi allora alla fantasia aveva sognato di viaggiare verso luoghi lontani e ciò lo aveva turbato profondamente, spingendolo poi in ufficio a parlare e ad agire senza controllo. Bellucca manifesta quindi il proposito di scusarsi con il capoufficio e di riprendere la vita di prima, riservandosi però la facoltà di evadere ogni tanto con l’immaginazione. La sopravvivenza in questo caso è garantita dal compromesso.

IL PERSONAGGIO. Bellucca incarna il tipico personaggio pirandelliano:

  •  intrappolato in una condizione alienata e insostenibile;
  • Svolge un lavoro arido e ripetitivo, non trova consolazione nella famiglia, non può venir meno ai suoi doveri perché tutto grava sulle sue spalle.
  • I colleghi che lo denigrano, lo percepiscono come un animale “vecchio somaro”, o come un oggetto “casellario ambulante”, è considerato un essere limitato, circoscritto, incapace di capire, di reagire, di provare sentimenti. In effetti Bellucca è stato totalmente risucchiato nel vortice dei suoi doveri e costretto a tirare la carretta senza pause, da dimenticarsi sia di sé stesso che del mondo.

Come spesso avviene nelle trame di Pirandello, è un fatto insignificante a scatenare un impensabile terremoto. La consapevolezza improvvisa che la vita non si può soffocare in una forma, determina infatti in Bellucca una vera e propria metamorfosi. Tutto in lui ad un tratto si ribella e aspira a superare i limiti, il corpo, il viso sembra allargato, gli occhi si spalancano e si illuminano, le orecchie sembrano capaci di sentire suoni nuovi, il linguaggio, le parole che usa sono estranee al suo arido vocabolario di contabile, espressioni poetiche, immaginose, bislacche, le azioni, i gesti di insubordinazione al capo sovvertono un tabù ritenuto inviolabile nel mondo borghese.

La liberazione della forma tuttavia è soltanto provvisoria. Bellucca sa di dover rientrare nel suo ruolo, e la possibilità di ripetere quelle momentanee fughe attraverso l’immaginazione resta per lui una magra consolazione che non cancella la sofferenza. Ciò si deduce dal malinconico “magari” con cui l’uomo commenta le ipotesi di medici e colleghi sulla sua presunta malattia mentale. Bellucca evidentemente intuisce che soltanto in una condizione di autentica follia potrebbe liberarsi per sempre dall’oppressione della sua infelice esistenza.

La novella esemplifica per molti aspetti la poetica dell’umorismo. Di fronte al comportamento di Bellucca, che all’improvviso si manifesta del tutto contrario alle attese, i colleghi ridono trovandolo comico. Nel suo modo di fare c’è però una forza oscura che spaventa gli osservatori e li obbliga a una reazione.

La vittima con stupore quasi con terrore di tutti si era ribellata, lo avevano trascinata all’ospizio dei matti, e il narratore testimone è a introdurre l’elemento della riflessione che permette di adottare una prospettiva umoristica, non più comica. Il suo sguardo è pieno di dolore perché conosce le cause del comportamento del personaggio e si sforza di assumerne il punto di vista soffrendo con lui.

La rappresentazione della realtà impedisce tuttavia la facile commozione. Attraverso la descrizione di una situazione grottesca, esasperata, il lettore viene nuovamente orientato verso il riso. La famiglia di Bellucca infatti è troppo disgraziata: sono ceche la moglie, la suocera, la sorella della suocera, due donne sono vedove, ben 7 sono i nipoti. Le burle dei ragazzi che si infilano in mezzo alle tre vecchie scatenando zuffe e inseguimenti hanno un effetto di uno spettacolo farsesco. Non è dunque un racconto realistico quello che il lettore ha di fronte né una novella dai toni patetici, è un frammento di mondo portato all’eccesso per indurre una riflessione sulla condizione umana.

OPERE: Il fu Mattia Pascal

il romanzo il fu Mattia pascal di Luigi Pirandello racconta il bizzarro caso di un uomo che, creduto morto, inventa per sé una nuova identità pensando di poter essere più libero e felice. Resosi poi conto però di essere prigioniero di limiti ancora più soffocanti tenta senza alcun successo di recuperare la vita di prima e alla fine si ritrova in una condizione come sospesa, di non vita come un morto che si ostini a sopravvivere. Egli non è più Mattia pascal ma soltanto il fu Mattia Pascal, un uomo che ormai ha concluso la sua esistenza passata ma non può costruirne una nuova. Questo singolare caso di un uomo che approfitta della sua presunta morte per sfuggire a una realtà soffocante e tenta invano di costruirsi una nuova identità incuriosisce e non poco il pubblico di inizio novecento come testimoniano le numerose edizioni del romanzo di Pirandello

PUBBLICAZIONE: uscito a puntate nel 1904 sulla rivista Nuova Antologia, il fu Mattia pascal è raccolto in volume nello stesso anno e ripubblicato altre tre volte con l’aggiunta di una avvertenza sugli scrupoli della fantasia; viene inoltre viene tradotto quasi subito in tedesco nel 1905 e poi anche in francese nel 1910 e in inglese nel 1923: è conosciuto in tutta Europa

CRITICA: A tale successo di pubblico tuttavia non corrisponde un accoglienza iniziale altrettanto calorosa da parte della critica; molti intellettuali dell’epoca vedono nell’opera soltanto un prodotto di facile intrattenimento e uno dei filosofi critici più influenti del tempo, Benedetto Croce, esprime un giudizio negativo su Pirandello definendo il suo lavoro con una mescolanza non riuscita tra elementi artistici e un convulso inconcludente filosofare, determinando così un generale clima di diffidenza nei confronti del suo romanzo. Bisognerà aspettare gli anni 60 perché avvenga una vera e propria rivalutazione da parte della critica con la collocazione del fu Mattia pascal in quella rivoluzione europea di primo novecento che interessa la forma stessa del romanzo.

In questo libro infatti Pirandello introduce tutta una serie di novità che riguardano la struttura narrativa, la definizione del protagonista, i temi affrontati e sperimenta le idee fondamentali della sua poetica che saranno poi esposte in forma teorica nel saggio L’umorismo di ben quattro anni dopo, dedicato proprio alla buonanima di Mattia Pascal Bibliotecari.La vicenda è narrata in prima persona da Mattia Pascal nella forma di un lungo flashback ed è composta da 18 capitoli che possono essere suddivisi in 4 parti:

PRIMA PARTE, cap. 1 – 2, che potremmo definire cornice, in cui il protagonista è il fu Mattia Pascal ormai fuori della vita che si accinge a narrare la propria vicenda facendo due premesse:

una più generale per incuriosire il lettore è una filosofica in cui riflette sul modo e sulla possibilità stessa di raccontare una storia nel mondo moderno

BRANI DEL TESTO: Lettura di alcuni passaggi della prima premessa

Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo:

— Io mi chiamo Mattia Pascal.

— Grazie, caro. Questo lo so.

 — E ti par poco?

Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza:

— Io mi chiamo Mattia Pascal.

Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l’atroce cordoglio d’un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt’a un tratto che… sì, niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi, e de’ vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero innocente.

Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico, l’origine e la discendenza della mia famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli.

E allora?

Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo.

Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che guardiano di libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciar morendo al nostro Comune. È ben chiaro che questo Monsignore dovette conoscer poco l’indole e le abitudini de’ suoi concittadini; o forse sperò che il suo lascito dovesse col tempo e con la comodità accendere nel loro animo l’amore per lo studio. Finora, ne posso rendere testimonianza, non si è acceso: e questo dico in lode de’ miei concittadini. Del dono anzi il Comune si dimostrò così poco grato al Boccamazza, che non volle neppure erigergli un mezzo busto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in un vasto e umido magazzino, donde poi li trasse, pensate voi in quale stato, per allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale, non so per qual ragione sconsacrata. Qua li affidò, senz’alcun discernimento, a titolo di beneficio, e come sinecura, a 7 Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico, l’origine e la discendenza della mia famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli. E allora? Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo. Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che guardiano di libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciar morendo al nostro Comune. È ben chiaro che questo Monsignore dovette conoscer poco l’indole e le abitudini de’ suoi concittadini; o forse sperò che il suo lascito dovesse col tempo e con la comodità accendere nel loro animo l’amore per lo studio. Finora, ne posso rendere testimonianza, non si è acceso: e questo dico in lode de’ miei concittadini. Del dono anzi il Comune si dimostrò così poco grato al Boccamazza, che non volle neppure erigergli un mezzo busto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in un vasto e umido magazzino, donde poi li trasse, pensate voi in quale stato, per allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale, non so per qual ragione sconsacrata. Qua li affidò, senz’alcun discernimento, a titolo di beneficio, e come sinecura, a 7 qualche sfaccendato ben protetto il quale, per due lire al giorno, stando a guardarli, o anche senza guardarli affatto, ne avesse sopportato per alcune ore il tanfo della muffa e del vecchiume.

Tal sorte toccò anche a me; e fin dal primo giorno io concepii così misera stima dei libri, sieno essi a stampa o manoscritti (come alcuni antichissimi della nostra biblioteca), che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere, se, come ho detto, non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter servire d’ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura, riducendosi finalmente a effetto l’antica speranza della buon’anima di monsignor Boccamazza, capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo mio manoscritto, con l’obbligo però che nessuno possa aprirlo se non cinquant’anni dopo la mia terza, ultima e definitiva morte.

Giacché, per il momento (e Dio sa quanto me ne duole), io sono morto, sì, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda… sentirete.

Qui si chiude la prima premessa e subito dopo viene inserita la seconda: il protagonista del romanzo dopo aver precisato che da avergli dato il suggerimento di scrivere la sua vicenda curiosissima era stato don Eligio Pellegrinotto, reverendo e suo amico si lascia andare una serie di riflessioni filosofiche

Siamo o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po’ più di caldo, ora un po’ più di freddo, e per farci morire – spesso con la coscienza d’aver commesso una sequela di piccole sciocchezze – dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre.” (Cap. 2)

“E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili.” (Cap. 2)

à Confronto con un altro grande della letteratura che si è occupato di queste tematiche

“Ebbene, in grazia di questa distrazione provvidenziale, oltre che per la stranezza del mio caso, io parlerò di me, ma quanto più brevemente mi sarà possibile, dando cioè soltanto quelle notizie che stimerò necessarie.”

SECONDA PARTE, cap. 3 -7: possiamo anche definirla antefatto

ARCO CRONOLOGICO: Copre circa tre anni di tempo dall’inizio vero e proprio dall’azione sino alla decisione di non tornare più a casa

Protagonista è Mattia pascal di cui sono sintetizzate rapidamente l’infanzia e l’adolescenza per poi descriverne gli amori, la trappola familiare, la rovina economica, i lutti, il lavoro insignificante sino alla fuga e l’inattesa vincita al gioco: nel capitolo vii avviene la svolta in cui il personaggio creduto morto decide di cambiare identità

TERZA PARTE, cap. 8 – 16, che possiamo denominare una sorta di tentativo di una nuova vita

ARCO CRNOLOGICO. Si riferisce ad un periodo di 2 anni e di 2 mesi: protagonista è Adriano Meis, la nuova identità assunta da Mattia Pascal che viaggia a lungo e si stabilisce a Roma, combattuto tra un desiderio di libertà assoluta e la contraddittoria e nostalgia per i legami: vorrebbe una casa, un animale domestico, degli affetti, sentendosi prigioniero della sua falsa identità sceglie di mettere in atto un finto suicidio per ritornare nel paese natale, a Miragno, ad essere di nuovo e Mattia Pascal di una volta

QUARTA PARTE, cap. 17 – 18, che possiamo definire il ritorno impossibile e la ripresa della cornice

Protagonista e come nella prima parte il fu Mattia pascal che tenta di rientrare nella sua precedente esistenza senza però riuscirci: spiega infine di aver terminato la stesura del manoscritto e illustra la sua assai provvisoria conclusione.

ARCO CRONOLOGICO: il tempo complessivo della cornice dall’inizio della scrittura alla fine è di circa 6 mesi

AVVERTENZA. Nell’edizione definitiva del romanzo Pirandello inserisce subito dopo la vicenda un’avvertenza sugli scrupoli della fantasia con cui risponde ai suoi detrattori, a coloro che l’avevano accusato e avevano accusato soprattutto il suo romanzo di essere veramente poco plausibile: per smentirli Pirandello si avvale di 2 fatti di cronaca:

• Il primo è tratto da alcuni giornali di new York datati 25 gennaio 1921 si racconta di un americano che diviso tra l’amore per la moglie per la giovane amante organizza con le due donne un suicidio collettivo tuttavia dopo che la moglie si è sparata ed è morta, l’uomo e l’amante comprendono all’improvviso di non avere più alcuna ragione di uccidersi e si sposano felici e contenti, salvo poi essere arrestati dalle autorità. Pirandello commenta dicendo che se uno scrittore avesse portato sulla scena un fatto simile sarebbe stato sicuramente accusato di inverosimiglianza e sottolinea il paradosso di assurdità della vita: non ha affatto bisogno di sembrare verosimile perché è vero, autentico, tutto l’opposto di quei fatti dell’arte che per sembrare veri hanno bisogno di essere verosimili: è dunque del tutto folle pretendere da un’opera quella plausibilità da cui la vita stessa sfugge continuamente

• Ancora più calzante è una notizia tratta dal Corriere della Sera del 27 marzo 1920 in cui si parla del presunto suicidio di un elettricista milanese in un canale, del successivo riconoscimento del corpo da parte della moglie e di un uomo che poi sarebbe diventato il suo secondo marito e infine del ritorno del presunto morto che in realtà per tutto quel tempo si trovava in carcere. Pirandello ritiene impensabile che il signore milanese avesse letto il suo romanzo e avesse agito volontariamente per imitarlo era stata dunque la vita stessa a creare una combinazione di eventi simili a quelli che gli aveva riportato nel suo romanzo.

La varietà, il caso, l’assurdo sono pertanto assolutamente legittimi nell’arte perché si tratta delle caratteristiche che dominano la vita stessa contro ogni pretesa dell’uomo e dei critici – in particolare – di rendere razionale, sensata e compiuta ogni vicenda umana

TRAMA del fu Mattia Pascal

Mattia Pascal bibliotecario a Miragno, un immaginario paese ligure che però ha tratti tipicamente siciliani su invito di un amico sacerdote decide di mettere per iscritto la propria singolare vicenda: dopo un’adolescenza spensierata si ritrova in precarie condizioni economiche a causa della disonestà di Batta Malagna, amministratore a cui la madre rimasta vedova ha affidato con ingenuità tutti i beni di famiglia. Mattia che si è reso conto dei furti ma non ha mai fatto nulla per impedirli si vendica seducendo sia Romilda, una nipote che Malagna corteggiava per avere da lei un figlio, sia la moglie stessa dell’amministratore a torto accusata di sterilità generando figli con entrambe. Compresi gli inganni Malagna obbliga Mattia sposare Romilda, ma la vita coniugale si rivela un vero inferno: la suocera – vedova Pescatore – è astiosa e insopportabile; la moglie diviene cupa ostile al marito; le gemelle concepite muoiono nel giro di un anno. Intanto Mattia accetta un lavoro deludente in una biblioteca sempre deserta; muore anche l’anziana madre e con i soldi ricevuti dal fratello per il funerale Mattia tenta di fuggire per l’America fermatosi però a Montecarlo, vince al gioco una somma considerevole: ben 82 mila lire. Con quella enorme cifra decide inizialmente ritornare a casa avrebbe potuto dare una svolta alla propria esistenza e anche all’esistenza della sua famiglia però mentre si trova sul treno legge su un giornale la notizia della propria morte: moglie, suocera hanno infatti identificato il cadavere di uno sconosciuto ritrovato in un podere di Mattia affogato in canale come quello di Mattia Pascal.

Il protagonista sentendosi libero da obblighi familiari e da ristrettezze economiche pensa dunque di costruirsi una nuova vita più libera e piacevole: sceglie il nome Adriano Meis, modifica il proprio aspetto fisico – si sottoporrà anche a un’operazione agli occhi, essendo strabico – viaggia tantissimo, inventando un passato – con la sua nuova identità – in varie città d’Italia e d’Europa. Qualche tempo dopo un malinconico inverno trascorso a Milano lo induce a cercare una sistemazione più stabile verso sud. Affitta allora una camera a Roma presso la famiglia di Antonio Paleari: nella stessa casa vivono anche la figlia Adriana, il cognato di lei ossia Papiano, e altri due pensionanti. Progressivamente Mattia Adriano scopre i limiti della sua nuova identità, innamoratosi di Adriana le dichiara i propri sentimenti ma non può sposarla perché per quanto sia ricambiato Adriano Meis non esiste e Mattia pascal ha già una moglie; non può denunciare Papiano per un furto perché la polizia scoprirebbe anche le sue menzogne; sfidato a duello non può difendere il proprio onore perché privo di documenti non troverebbe nessuno disposto a garantire per lui.

Decide quindi di mettere fine al personaggio di Adriano Meis simulando un suicidio e torna a Miragno. Sono passati però più di due anni dalla sua scomparsa: la moglie si è risposata e ha avuto una figlia intenerito dalla bambina Mattia decide di non rivendicare i propri diritti e si ritira in disparte a vivere presso una vecchia zia riprendendo il lavoro nella biblioteca. Qui come fuori dal mondo si dedica alla scrittura della propria storia, ogni tanto si reca a far visita la propria tomba dove è sepolto lo sconosciuto e a chi la incontra dice di essere il fu Mattia pascal

Il romanzo di cui abbiamo appena sintetizzato la vicenda si avvale di molti elementi narrativi classici ma riproponendoli in modo completamente nuovo: tra gli stilemi narrativi della tradizione possiamo enumerare ad esempio:

•l’espediente del manoscritto; la scelta della narrazione autobiografica; gli amori in cui un giovane beffa un vecchio; le difficoltà economiche e familiari; suicidio; il viaggio il ritorno; il riconoscimento.

ELEMENTI:

Sguardo umoristico. Pirandello non si limita a riutilizzare questi motivi narrativi ma ne prende le distanze accompagnandoli con una continua riflessione: è il principio fondamentale dell’umorismo che porta a guardare con distacco fatti e personaggi e ad assumere un atteggiamento problematico nei confronti della vita.

Vicenda insolita. La vicenda scelta estremamente insolita tanto che venne accusata di inverosimiglianza non appare quindi fedele al vero storico che Manzoni giudicava indispensabile: i fatti non servono a illustrare la condizione di una determinata categoria sociale come invece avviene nel verismo ma si riferiscono ad un bizzarro caso individuale; gli eventi non mirano a far emergere le leggi universali del comportamento umano e della storia ma mostrano che il trionfo del caso, dell’imprevedibile e dell’assurdo

Protagonista antieroe/inetto. Il protagonista poi non è un eroe in senso classico quanto piuttosto un antieroe, un inetto, che tenta di trasgredire ma non ha mai il coraggio di andare fino in fondo, di ribellarsi veramente a ciò che gli appare ingiusto o detestabile, ad esempio:

•Vede i furti dell’amministratore ma non si oppone

•seduce due donne ma così sposa come gli viene imposto

•Detesta la suocera ma non riesce a contrastarne le critiche

•Fugge poi decide di tornare

•Si finge un altro per essere libero ma non sa fare a meno di legami e relazioni

•Afferma di volersi vendicare ma poi in fin dei conti non lo fa

Focalizzazione sull’io narrato. È presente una focalizzazione sull’ io narrato: infatti sebbene siano fatti già accaduti sono raccontati dal punto di vista del personaggio che li sta ancora vivendo, che li comprende perciò in modo limitato e parziale senza offrire alcun insegnamento valido.

Narratore-personaggio inattendibile. Nelle autobiografie ottocentesche invece la narrazione è onnisciente, focalizzata sul narratore il quale a distanza di anni spiega gli eventi interpretandone il senso in una prospettiva generale: il narratore/personaggio riflette costantemente ma è inattendibile, mente a se stesso adducendo per i propri atti troppe motivazioni spesso contraddittorie eccessivamente dettagliate oppure al contrario vaghe ed imprecise poiché come è evidente non è sincero con se non lo è neanche con il lettore che portato pertanto a diffidare di lui: il narratore ottocentesco invece si presenta sempre come depositario della verità.

Formazione mancata. Il fu Mattia pascal rappresenta un’esperienza di formazione mancata mentre nei romanzi romantici e risorgimentali, il personaggio, attraverso le vicende a lui capitate impara a vivere,

Mattia pascal approda ad una condizione di non vita, di estraneità dal mondo: non riesce a costruirsi una vita libera da vincoli e convenzioni ma diviene consapevole che l’identità è una costruzione assolutamente relativa, l’unica certezza è che nel mondo nulla ha senso e che non vi sono significati reconditi da scoprire, come invece avviene per gli autori del simbolismo decadente

Parole concrete e adeguate al carattere del personaggio. Le parole poi non sono scelte per il loro valore evocativo o musicale, per la loro natura rara e preziosa, come nella narrativa dannunziana ma sono concrete e adeguate al carattere del personaggio a costo di risultare comuni e di essere criticate dai detrattori come scolorite e borghesi, ossia banali e poco letterarie

Opposizione al romanzo realista. In sintesi il fu Mattia Pascal si allontana dai modelli di romanzo proprio dell’ottocento perché rispetto al romanzo romantico risorgimentale respinge

  • l’adesione al vero storico;
  •  la presenza di una ragione onnisciente affidabile;
  • l’idea che il personaggio compia un percorso di formazione e possa offrire un insegnamento valido per tutti;

Perché rispetto alla narrativa verista rifiuta la rigida necessità del nesso causa-effetto, l’attenzione per determinate categorie sociali e la tecnica dell’impersonalità; si distingue poi rispetto alle opere simboliste perché

  • non rinuncia a servirsi della ragione
  • Escluso invece la ricerca dei significati segreti delle cose
  • rifiuta una lingua raffinata ed evocativa;

Natura non idillica. L’ambiente nell’orizzonte di Mattia Pascal non offre nessuna consolazione alla solitudine dell’uomo; il paese natale, l’immaginaria Miragno, ligure ma con caratteristiche siciliane non è infatti un nido accogliente e familiare; spiccano la disonestà dell’amministratore, l’indifferenza dei paesani, l’inutilità della biblioteca non frequentata da nessuno; il gusto per i pettegolezzi

Distanza dal Simbolismo. Pirandello prende le distanze anche dall’idea simbolista delle corrispondenze che mitizza la natura come un tutto dal quale affiorano per l’uomo messaggi segreti. Per Mattia-Adriano la natura non è affatto depositaria di significati misteriosi e superiori come si può desumere dal passo del capitolo 9 in cui egli fischietta oziosamente a un canarino chiuso in gabbia: il personaggio produce suoni del tutto casuali e si domanda se la bestiola gli attribuisca a qualche significato nello stesso modo in cui gli uomini si illudono erroneamente di cogliere chissà quali messaggi nei diversi aspetti della natura.

Critica alla modernità. D’altro canto nemmeno le scoperte della scienza consentono all’uomo di trovare una risposta ai propri interrogativi sull’esistenza in opposizione al positivismo e anche all’ingenuità degli uomini comuni che esaltano incondizionatamente il progresso e le innovazioni tecnologiche, Mattia-Adriano critica il lato negativo della modernità che dà all’uomo più tempo per rendersi conto che la vita è vana. Anche Roma città erede di un grande passato è guardata con disincanto da Mattia-Adriano: è ormai una città morta, un’acquasantiera ridotta portacenere, ossia un luogo la cui sacralità è stata banalizzata dal mondo moderno senza che però siano emersi valori nuovi in grado di sostituire quelli del passato.

Identità inafferrabile e inconsistente. Particolarmente significativo il luogo in cui il fu Mattia Pascal trova infine la propria collocazione dopo ritorno al paese natale: una biblioteca che ha sede in una chiesa sconsacrata dove i libri sono posti alla rinfusa, danneggiati dall’umidità e dall’incuria mai letti da nessuno

E’ un luogo fuori dalla vita come il letto in cui Mattia dorme, lo stesso in cui sua madre è morta e come il cimitero che egli frequenta ogni tanto per leggere la lapide e portare fiori alla propria tomba; al luogo estraneo al mondo si accompagna un tempo immobile, una sorta di eterno presente nel quale il protagonista guarda ogni cosa con distacco e prende atto della propria impossibilità di partecipare alla vita essendo ormai divenuto una maschera nuda, un personaggio consapevole che quella che viene chiamata identità non è che una forma artificiale e vana

Nel romanzo compaiono alcuni temi ricorrenti nella produzione pirandelliana tra i quali spiccano il problema dell’identità individuale, la famiglia come trappola, il relativismo filosofico: sin dalle prime parole il protagonista annuncia di aver perduto quella che potrebbe sembrare una certezza banale, ossia la possibilità di pronunciare il proprio nome.

La sua vicenda lo porta a scoprire che l’identità non è oggettiva e stabile ma condizionata da mille elementi, e dunque è inafferrabile e inconsistente. I tentativi di modificarla a proprio piacimento si rivelano fallimentari, non basta un tale nome e alterare l’aspetto fisico per cancellare ciò che si è stati, come dimostra ad esempio

  • il particolare inconfondibile dell’occhio strabico di Mattia che Adriano cerca inutilmente di nascondere dietro un paio di occhiali colorati
  • E più ancora la persistenza dei desideri, delle idee della storia di Mattia nella persona di Adriano che scopre così di essere inseparabile da Mattia come dalla propria ombra

Al suo ritorno il protagonista comprende che una volta spezzata la convenzione sociale nulla è più come prima, tuttavia pur avendo capito ciò – che l’identità non è – egli  non ha la forza di portare fino in fondo la sua ribellione nei confronti delle strutture sociali come farà invece il personaggio di Vitangelo Moscarda protagonista di Uno Nessuno e Centomila; si ferma prima, limitandosi a constatare che non sapere più che egli sia.

Tra le strutture che condizionano e paralizzano l’uomo, per Pirandello vi è sicuramente la famiglia che impone obblighi all’individuo moltiplicando tensioni e disagi; si tratta di un tema che per Pirandello ha inevitabili radici autobiografiche: quando scrive romanzo infatti:

  •  ha appena subito un grave danno economico – l’allagamento della miniera di zolfo in cui era stata investita la dote della moglie – ;
  • assiste alle prime manifestazioni dei seri disturbi mentali della consorte
  • deve svolgere i lavori aggiuntivi fino allo sfinimento per far fronte alle necessità economiche della famiglia

COMMENTO BRANI DEL TESTO:

Brani:

Oreste-Amleto: la fragile maschera dell’identità

PREMESSA: Assunta l’identità di Adriano Meis, il protagonista si stabilisce a Roma dove affitta una stanza presso Anselmo Paleari, uomo appassionato di filosofia e di spiritismo. Il signor Paleari illustra così all’ospite le sue personali osservazioni sulla vita umana prendendo spunto da uno spettacolo di marionette in programma per quella sera: secondo Paleari – che esprime qui il pensiero di Pirandello – nel modo moderno non possono più esistere eroi dalle certezze indubitabili ma soltanto individui tormentati da dubbi: il personaggio di Oreste sa perfettamente come agire, quando si trova nel proprio contesto ossia nel mondo classico dove virtù e colpe sono definite secondo un sistema di valori stabile e condiviso. Quando però lo sfondo da cui le azioni traggono il loro senso viene meno, diventa più difficile decidere come comportarsi: è davvero giusto compiere la vendetta, uccidere l’assassino del padre e la propria madre? Si tratta di domande di fronte alle quali l’eroe classico riesce a darsi risposte senza esitare, mentre l’eroe moderno rappresentato da Amleto non sa risolversi con convinzione.

L’immagine dello strappo nel cielo di carta mostra concretamente la crepa nelle certezze generali, l’uomo si accorge all’improvviso che al di sopra di lui non vi è niente e che il mondo in cui si è sempre mosso è artificiale, falso; la sua stessa identità individuale diviene più incerta, da uomo d’azione si trasforma in un inetto paralizzato dai dubbi che si osserva vivere ma che Adriano, che inizialmente critica come astrazioni famose le idee di Paleari, è costretto in un secondo momento a riconoscerne tra sé la validità e prorompe in un lamento invidiando gli uomini che vivono la vita come marionette e interpretano la propria parte senza “perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla!”, felicemente inconsapevoli dell’insensatezza del mondo

Il vecchio Paleari, il teatrino e il cielo strappato

Anselmo Paleari, il padrone della pensione presso cui Adriano Meis ha preso domicilio a Roma, è un personaggio alquanto bizzarro: pensatore eccentrico, appassionato di spiritismo e teosofia, talora stralunato, amante del paradosso. A Roma, in un teatro di marionette, si rappresenta una riduzione dell’Elettra di Sofocle. Questo evento suggerisce al Paleari una bizzarria, uno dei suoi soliti ragionamenti estemporanei. Che cosa accadrebbe se, nel momento culminante della rappresentazione (quando Oreste sta per uccidere la madre Clitennestra e il suo amante Egisto, vendicando così la morte del padre Agamennone), all’improvviso si strappasse il cielo di carta del teatrino? Secondo Paleari, Oreste ne rimarrebbe sconcertato, bloccato, incapace di portare a termine il proprio proposito. Oreste diventerebbe cioè Amleto: non più l’antico eroe dell’azione, tutto compreso nel proprio ruolo, ma il moderno anti-eroe del dubbio e della crisi di identità.

– La tragedia d’Oreste [nell’Elettra di Sofocle (tragediografo ateniese, 496-406 a.C.) Oreste, con la complicità della sorella Elettra, uccide la madre Clitennestra e il suo amante, Egisto, per vendicare l’uccisione del padre Agamennone] in un teatrino di marionette! – venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. – Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis. – La tragedia d’Oreste? – Già! D’après Sophocle [tratta da Sofocle], dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per [sta per] vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei. – Non saprei, – risposi, stringendomi né le spalle. – Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo. – E perché? – Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto [in quel momento], gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta. [Amleto, il protagonista dell’omonima tragedia di Shakespeare, come Oreste, manifesta l’inten – zione di vendicare la morte del padre ucciso dalla madre e dallo zio che ne ha usurpato il trono; ma mentre l’eroe greco persegue il proprio scopo senza esitazione, il principe danese, simbolo delle incertezze dell’uomo contemporaneo, è assillato da mille dubbi che gli impediscono di agire e finisce per essere anch’egli travolto dagli eventi]. E se ne andò, ciabattando. Dalle vette nuvolose delle sue astrazioni il signor Anselmo lasciava spesso precipitar così, come valanghe, i suoi pensieri. La ragione, il nesso, l’opportunità di essi rimanevano lassù, tra le nuvole, dimodoché difficilmente a chi lo ascoltava riusciva di capirci qualche cosa. L’immagine della marionetta d’Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto: “Beate le marionette,” sospirai, “su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente [occuparsi, agire con coraggio e fermezza] e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri [allude metaforicamente alle angosce e alle perplessità che attanagliano Amleto] , poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato.

“E il prototipo di queste marionette, caro signor Anselmo,” seguitai a pensare, “voi l’avete in casa, ed è il vostro indegno genero, Papiano [l’intrigante e ingombrante genero di Paleari, che, percepito il disagio di Meis, lo metterà in crisi fino a costringerlo a simulare il secondo suicidio; egli è l’incarnazione della marionetta inconsapevole, sicura del fatto che tutto sia funzionale alle proprie esigenze, compreso Dio, come dirà subito dopo.] . Chi più di lui pago del cielo di cartapesta, basso basso, che gli sta sopra, comoda e tranquilla dimora di quel Dio proverbiale, di maniche larghe, pronto a chiuder gli occhi e ad alzare in remissione [segno di perdono] la mano; di quel Dio che ripete sonnacchioso a ogni marachella: – Ajutati, ch’io t’ajuto? – E s’ajuta in tutti i modi il vostro Papiano. La vita per lui è quasi un gioco d’abilità. E come gode a cacciarsi in ogni intrigo: alacre, intraprendente, chiacchierone!”

LINEE DI ANALISI TESTUALE

Due parti

La “lezione” di Paleari a Meis: La prima parte del brano (righe 1-18), tutta in discorso diretto, è in sostanza una breve scena teatrale, nella quale Paleari e Meis si scambiano battute come due personaggi in palcoscenico. Il tono di Paleari è sostenuto e un poco sopra le righe: sia quando annuncia con una certa enfasi lo spettacolo delle marionette, sia soprattutto quando enuncia la propria “teoria” con piglio dimostrativo e didascalico (si notino la serie delle interrogative, con le quali coinvolge Meis come fosse un suo discepolo e le espressioni Dica lei… Ma è facilissimo…! Mi lasci dire…). Adriano Meis ha semplicemente un ruolo di “spalla”: la scena si chiude con la frase E se ne andò, ciabattando, che equivale ad una didascalia

La voce narrante: Nella seconda parte (riga 19 e segg.) la narrazione è gestita direttamente dalla consueta voce narrante, che all’inizio parla in discorso indiretto e poi riporta fra virgolette i propri pensieri (nel romanzo si ricorre spesso a questo espediente, per sottolineare la distanza fra il tempo della narrazione e il tempo della storia: Mattia Pascal ricostruisce tutta la sua vicenda in flashback).

Tragedia di marionette

La trasformazione della tragedia di Sofocle in rappresentazione di marionette è comico-umoristica e simbolica.

Comicità: È di per sé comico l’accostamento fra il genere alto della tragedia classica e il genere basso e popolare del teatro dei burattini (sono sottolineature ironiche il diminutivo manifestino e l’espressione in francese – D’après Sophocle – con cui la locandina ostenta l’illustre fonte da cui è tratto lo spettacolo). Umorismo: L’umorismo, invece, come sempre in Pirandello, è frutto di una riflessione: la società moderna non è rappresentabile in chiave tragica, ma solo in chiave comico-umoristica, solo come teatro delle marionette (si noti la significativa precisazione: Marionette automatiche, di nuova invenzione, riga 2). I personaggi di Oreste e Amleto – l’Oreste di Sofocle e l’Amleto di Shakespeare – sono accomunati da una medesima situazione di base (entrambi sono chiamati a vendicare il padre attraverso il matricidio), ma contrapposti nel carattere e nella capacità (Oreste agisce, Amleto è dubbioso).

Simbolismo: Proprio per queste loro caratteristiche possono rappresentare il mondo e l’uomo contemporaneo: uno per antitesi, uno per similitudine. In particolare notiamo che Oreste, tutto compreso nel suo ruolo e nella sua identità, crede ciecamente nella verità del contesto in cui opera e, dunque, crede che il cielo sia “vero”. Se il cielo si strappa, svelando la finzione, tutto in lui crolla: la sua identità entra in crisi, il suo ruolo e la sua capacità d’azione s’inceppano. Oreste diventa un moderno Amleto: cioè un uomo che ha capito di vivere in un sistema di finzioni ma anche, allo stesso tempo, di non poterne fare a meno

La condizione dell’uomo moderno

Lo strappo nel cielo di carta è un qualsiasi avvenimento imprevisto che può mettere in crisi i consueti punti di riferimento, i contesti entro i quali l’uomo costruisce le proprie certezze, a cominciare dal proprio io, operanti solo finché funzionano i meccanismi teatrali, cioè le convenzioni che le generano e le mantengono in vita. Lo strappo simboleggia dunque la consapevolezza dell’uomo moderno di non avere certezze stabili, la mancanza di finalismo del mondo, l’artificiosità e la convenzionalità delle forme sociali.

La crisi del sistema geocentrico: In chiave storico-culturale, rappresenta la crisi del sistema geocentrico ovvero della visione oggettiva e provvidenziale dell’universo (si legga, nella seconda Premessa del romanzo, il dialogo fra Mattia e l’amico sacerdote don Eligio Pellegrinotto), con impliciti richiami anche alla recente crisi del Positivismo. Nei Quaderni di Serafino Gubbio, lo strappo si trasformerà, invece, in apertura verso l’oltre, possibilità di squarciare il velo che ottenebra la vista (ma anche lì la vita si svela in una prevalente dimensione di violenza: l’omicidio dell’amante, lo sbranamento).

La filosofia del lanternino

Nel secondo testo il signor Paleari espone la lanterninosofia

ANTEFATTO: Adriano Meis per cancellare una vistosa traccia che lo lega al Mattia Pascal, si sottopone ad un intervento per raddrizzare occhio strabico; nella convalescenza è costretto a stare immobile a letto al buio e il signor Paleari spesso lo intrattiene esponendoli le sue convinzioni filosofiche: secondo Paleari ogni uomo è dotato di un lanternino interiore che getta intorno all’individuo un cerchio di luce al di là del quale vi è l’ignoto. I lanternini traggono a loro volta la luce dai lanternoni cioè dalle grandi ideologie che caratterizzano le diverse epoche storiche ad esempio la religione, la scienza, gli ideali politici e permettono all’umanità di orientarsi. Se però, come avviene nel mondo moderno, i lanternoni si spengono ossia vengono meno le grandi ideologie, gli individui vedono restringersi progressivamente il proprio orizzonte di osservazione a un piccolo cerchio di luce e lo scambiano per la luce stessa delle cose mentre si tratta soltanto del loro modo limitato, parziale, individuale, fallibile, di guardare il mondo: non è più possibile pertanto individuare valori assoluti ma ogni cosa pare relativa e cangiante a seconda del lanternino che la illumina. La reazione degli uomini quando viene meno la luce comune delle grandi lanterne è simile a quella di formiche impazzite che tentano inutilmente di ritrovare l’imboccatura del formicaio.

La situazione di smarrimento e confusione delle lanterne individuali è resa stilisticamente attraverso l’accumulazione paratattica di azioni di rimando: ai righi 60-63 leggiamo insieme

“chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s’aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d’accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa”

Dallo strappo al lanternino

Questo episodio, in cui Paleari espone ad Adriano Meis la filosofia del lanternino, è la naturale prosecuzione e il completamento di quella dello strappo nel cielo di carta del teatrino delle marionette (cfr. testo precedente a pag. 202 e segg.). Adriano Meis si è fatto operare all’occhio strabico, nella convinzione che, cancellando anche l’ultima traccia della precedente identità, sia per lui finalmente possibile ricominciare a vivere normalmente. L’operazione lo obbliga a stare fermo al buio per quaranta giorni. In questo tempo gli tiene spesso compagnia Anselmo Paleari, con le sue solite elucubrazioni filosofiche. In particolare, per consolare Meis, Paleari vuole dimostrargli con un lungo ragionamento che il bujo è immaginario. Gli espone, a tal fine, una concezione filosofica speciosissima, che il narratore propone di chiamare lanterninosofia, cioè “filosofia del lanternino”.

Che cos’è la filosofia del lanternino?

Gli uomini hanno, rispetto agli altri esseri, il tristo privilegio di sentirsi vivere: hanno cioè la coscienza della propria individualità, l’illusione dell’identità. Questo sentimento della vita è come un lanternino che proietta tutt’intorno […] un cerchio più o meno ampio di luce, nel quale consistono l’io e il non-io, cioè l’illusione dell’identità personale e l’apparente oggettività del reale (l’una e l’altra, invece, non sono che proiezioni della soggettività); oltre quella luce c’è l’ombra paurosa di ciò che non possiamo vedere e capire e, dunque, consideriamo misterioso e minaccioso: in realtà, la nostra paura è causata dal nostro stesso lanternino e dalla sua limitata portata. Se esso non ci fosse, potremmo inconsapevolmente vivere la vita vera del flusso universale: quella dell’albero, ad esempio, che vive e non si sente vivere, e al quale la terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento non sembra che sieno cose ch’esso non sia.

Dopo alcuni giorni di quella prigionia cieca [in seguito all’operazione all’occhio, Meis è costretto ad una quarantena di immobilità e buio] , il desiderio, il bisogno d’esser confortato in qualche modo crebbe fino all’esasperazione. Sapevo, sì, di trovarmi in una casa estranea; e che perciò dovevo anzi ringraziare i miei ospiti delle cure delicatissime che avevano per me. Ma non mi bastavano più, quelle cure; m’irritavano anzi, come se mi fossero usate per dispetto. Sicuro! Perché indovinavo da chi mi venivano. Adriana [nella pensione romana Meis si innamora, ricambiato, della figlia di Paleari] mi dimostrava per mezzo di esse, ch’ella era col pensiero quasi tutto il giorno lì con me, in camera mia; e grazie della consolazione! Che mi valeva, se io intanto, col mio [sottinteso “pensiero”] , la inseguivo di qua e di là per casa, tutto il giorno, smaniando [desiderandola con impazienza] ? Lei sola poteva confortarmi: doveva; lei che più degli altri era in grado d’intendere come e quanto dovesse pesarmi la noja, rodermi il desiderio di vederla o di sentirmela almeno vicina. E la smania e la noja erano accresciute anche dalla rabbia che mi aveva suscitato la notizia della subitanea partenza da Roma del Pantogada [lo spagnolo che aveva incontrato a Montecarlo e che, conoscendo la sua vera identità, avrebbe potuto smascherarlo] . Mi sarei forse rintanato lì per quaranta giorni al bujo, se avessi saputo ch’egli doveva andar via così presto? Per consolarmi, il signor Anselmo Paleari mi volle dimostrare con un lungo ragionamento che il bujo era immaginario. – Immaginario? Questo? – gli gridai. – Abbia pazienza; mi spiego. E mi svolse [espose] (fors’anche perché fossi preparato a gli esperimenti spiritici [Paleari, appassionato di scienze occulte, ha la consuetudine di organizzare sedute spiritiche a cui partecipano strani personaggi] , che si sarebbero fatti questa volta in camera mia, per procurarmi un divertimento) mi svolse, dico, una sua concezione filosofica, speciosissima [molto allettante, ma inconsistente] , che si potrebbe forse chiamare lanterninosofia. Di tratto in tratto, il brav’uomo s’interrompeva per domandarmi: – Dorme, signor Meis? E io ero tentato di rispondergli: “Sì, grazie, dormo, signor Anselmo”.

Ma poiché l’intenzione in fondo era buona, di tenermi cioè compagnia, gli rispondevo che mi divertivo invece moltissimo e lo pregavo anzi di seguitare. E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l’albero che vive e non si sente, [che vive, ma non ha la coscienza di vivere.] a cui la terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch’esso non sia: [che siano cose diverse da lui; tutti gli esseri viventi, eccetto l’uomo, non avendo coscienza della propria individualità, vivono inconsapevolmente la vita autentica annullando se stessi nel flusso universale] cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo [nefasto, sfortunato] privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, [la coscienza di vivere conduce l’uomo a distinguere, proiettandole fuori di sé, l’identità personale e la realtà apparentemente oggettiva] secondo i tempi, i casi e la fortuna. E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione? [con lo spegnersi della vita si annullerà anche la nostra individualità e non vi sarà che il nulla, oppure ci immergeremo nel flusso eterno della vita universale (alla mercé dell’Essere) che l’illusione di identità individuale (vane forme) ci aveva fatto sentire separati? Con giorno fumoso della nostra illusione si intende l’esistenza dell’uomo, privato della facoltà di percepire il fluire della vita dell’universo dalla forma illusoria della sua coscienza] – Dorme, signor Meis? – Segua [prosegua], segua pure, signor Anselmo: non dormo. Mi par quasi di vederlo, codesto suo lanternino. – Ah, bene… Ma poiché lei ha l’occhio offeso, non ci addentriamo troppo nella filosofia, eh? e cerchiamo piuttosto d’inseguire per ispasso [per gioco] le lucciole sperdute, che sarebbero i nostri lanternini, nel bujo della sorte umana. Io direi innanzi tutto che son di tanti colori; che ne dice lei? secondo il vetro che ci fornisce l’illusione, gran mercantessa, gran mercantessa di vetri colorati. [ogni essere umano ha una propria visione della realtà, che viene “filtrata” attraverso diversi sistemi di valori e princìpi (vetri colorati) che l’illusione continuamente ci fornisce] A me sembra però, signor Meis, che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d’un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni [sono le ideologie che hanno caratterizzato le varie epoche storiche] che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io… E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana? Di color violetto, color deprimente, quello della Virtù cristiana. [Paleari associa il colore rosso alla Virtù pagana antica, in quanto espressione di vigore e vitalità, e il violetto a quella cristiana che esalta l’abnegazione e il dolore] Il lume d’una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde [si indebolisce], rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell’idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che son detti di transizione. [sono i periodi di crisi dei sistemi di valori a cui si sono ispirate le precedenti generazioni] Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d’un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell’improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s’aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d’accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele. Mi pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci? Indietro, forse? Alle lucernette superstiti, a quelle che i grandi morti lasciarono accese su le loro tombe? [i valori che animarono i grandi uomini del passato possono diventare punti di riferimento cui attingere per crearne di nuovi?] Ricordo una bella poesia di Niccolò Tommaseo [si tratta della poesia La mia lampana, inclusa nella seconda parte delle Poesie di Tommaseo (per il quale cfr. vol. IV, pag. 467 e segg.)]:

La piccola mia lampa

Non, come sol, risplende,

Né, come incendio, fuma;

Non stride e non consuma,

Ma con la cima tende

Al ciel che me la diè.

Starà su me, sepolto,

Viva; né pioggia o vento,

Né in lei le età potranno;

E quei che passeranno

Erranti, a lume spento,

Lo accenderan da me.

[la mia piccola lanterna (simbolo della fede cristiana) non risplende come il sole, né manda fumo come un incendio (vale a dire “è modesta e non ha bisogno di grandiose manifestazioni”); non crepita e non si consuma, ma con la cima si protende verso il cielo (Dio) che me la diede. Continuerà a vivere su di me ormai sepolto; né contro di lei avranno potere la pioggia, il vento e il tempo; e quelli che passeranno (i posteri) errando (nei momenti di smarrimento), con il lume spento (spenti i loro ideali), lo accenderanno dalla luce della mia lanterna (la fede religiosa).]

Ma come, signor Meis, se alla lampa nostra manca l’olio sacro che alimentava quella del Poeta? Molti ancora vanno nelle chiese per provvedere dell’alimento necessario le loro lanternucce. Sono, per lo più, poveri vecchi, povere donne, a cui mentì la vita, e che vanno innanzi, nel bujo dell’esistenza, con quel loro sentimento acceso come una lampadina votiva, cui [che] con trepida cura riparano dal gelido soffio degli ultimi disinganni, ché [affinché] duri almeno accesa fin là, fino all’orlo fatale [la morte], al quale s’affrettano, tenendo gli occhi intenti alla fiamma e pensando di continuo: “Dio mi vede!” per non udire i clamori della vita intorno, che suonano ai loro orecchi come tante bestemmie. “Dio mi vede…” perché lo vedono loro, non solamente in sé, ma in tutto, anche nella loro miseria, nelle loro sofferenze, che avranno un premio, alla fine. Il fioco, ma placido lume di queste lanternucce desta certo invidia angosciosa in molti di noi; a certi altri, invece, che si credono armati, come tanti Giove, del fulmine domato dalla scienza, e, in luogo di quelle lanternucce, recano in trionfo le lampadine elettriche, ispira una sdegnosa commiserazione. [riprende la critica alla modernità e al progresso tecnologico, che molti ritengono il mezzo per risolvere i problemi esistenziali dominando e piegando le forze della natura (fulmine domato dalla scienza) secondo le esigenze umane. Giove, re degli dèi del cielo, è rappresentato dalla mitologia armato di fulmine; tutto ciò che viene colpito dal fulmine di Giove è sacro] Ma domando io ora, signor Meis: E se tutto questo bujo, quest’enorme mistero, nel quale indarno i filosofi dapprima specularono, [che prima i filosofi fecero oggetto delle loro speculazioni senza approdare a nulla] e che ora, pur rinunziando all’indagine di esso, la scienza non esclude, [allusione alle teorie del Positivismo che hanno il compito di spiegare ciò che è sperimentabile e comprensibile alla ragione] non fosse in fondo che un inganno come un altro, un inganno della nostra mente, una fantasia che non si colora? Se noi finalmente ci persuadessimo che tutto questo mistero non esiste fuori di noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento [percezione] che noi abbiamo della vita, del lanternino cioè, di cui le ho finora parlato? Se la morte, insomma, che ci fa tanta paura, non esistesse e fosse soltanto, non l’estinzione della vita, ma il soffio che spegne in noi questo lanternino, lo sciagurato sentimento che noi abbiamo di essa, penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo cerchio d’ombra fittizia, oltre il breve àmbito [spazio delimitato] dello scarso lume, che noi, povere lucciole sperdute, ci projettiamo attorno, e in cui la vita nostra rimane come imprigionata, come esclusa per alcun tempo [per un po’ di tempo] dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo, ma senza più questo sentimento d’esilio che ci angoscia? Il limite è illusorio, è relativo al poco lume nostro, della nostra individualità: nella realtà della natura non esiste. Noi, – non so se questo possa farle piacere – noi abbiamo sempre vissuto e sempre vivremo con l’universo; anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo a tutte le manifestazioni dell’universo, ma non lo sappiamo, non lo vediamo, perché purtroppo questo maledetto lumicino piagnucoloso ci fa vedere soltanto quel poco a cui esso arriva; e ce lo facesse vedere almeno com’esso è in realtà! Ma nossignore: ce lo colora a modo suo, e ci fa vedere certe cose, che noi dobbiamo veramente lamentare, perbacco, che forse in un’altra forma d’esistenza non avremo più una bocca per poterne fare le matte risate. Risate, signor Meis, di tutte le vane, stupide afflizioni che esso ci ha procurate, di tutte le ombre, di tutti i fantasmi ambiziosi e strani che ci fece sorgere innanzi e intorno, della paura che c’ispirò [suscitò in noi]!

Linee di analisi testuale

La lanterninosofia

Paleari Pirandello: La lanterninosofia del vecchio Paleari è in realtà una parte importante della “filosofia” di Pirandello, che non a caso nel saggio L’umorismo, il suo più importante scritto teorico, riprenderà interi brani di questo capitolo XIII.

Relativismo ontologico, gnoseologico, storico: La lanterninosofia contiene ed esprime, soprattutto, i presupposti del relativismo ontologico e gnoseologico di Pirandello. L’identità individuale e la visione della realtà, l’essenza dell’io e del non-io non sono altro che le parti di sé e del mondo che ciascuno riesce ad illuminare con il proprio lanternino, cioè pure proiezioni della soggettività e, dunque, per ciò stesso relative e mutevoli. L’identità personale, inoltre, può essere illuminata di volta in volta dal cerchio di luce dei lanternini altrui: dunque è a maggior ragione relativa e mutevole. Coscienza dell’io e coscienza del mondo, inoltre, sono soggette ad un inevitabile relativismo storico, essendo frutto anche della luce dei lanternoni delle ideologie, delle fedi, delle filosofie che caratterizzano e distinguono le varie epoche

Lanternini e lanternoni

I passaggi fondamentali della lanterninosofia di Paleari sono:

1. il tristo privilegio degli uomini di sentirsi vivere;

2. la conseguente percezione di uno sdoppiamento fra l’io e la realtà, fra il sentimento della vita e la vita vera;

3. la metafora del lanternino, con il suo cerchio più o meno ampio di luce;

4. la durata dell’azione del lanternino fino alla morte, che lo spegnerà con un soffio e porrà fine alle vane forme della nostra ragione

L’illusione della luce

Il Dorme, signor Meis? della riga 23 crea, con un effetto tipicamente teatrale, un momento di rottura della tensione narrativa e segna il passaggio alla parte dedicata ai lanternoni, cioè ai grandi valori che, alla luce delle varie ideologie, fedi, religioni, caratterizzano le diverse età della storia (la Verità, la Virtù, la Bellezza, l’Onore). Ci sono anche età nelle quali tutti i lanternoni paiono spegnersi e gli uomini s’aggirano in gran confusione, in furia angosciosa, urtandosi, aggregandosi, sparpagliandosi senza punti di riferimento al di là dei propri limitati lanternini. A chi rivolgersi, quando è spenta la luce dei lanternoni? Alla poesia (la piccola lampa di Tommaseo)? Alla religione ufficiale (Molti […] vanno nelle chiese…)? Alla scienza (che in luogo di quelle lanternucce, reca in trionfo le lampadine elettriche…)? Alla filosofia (che invano finora ha speculato sull’enorme mistero del bujo che avvolge le fragili luci dei lanternini e dei lanternoni)? La risposta è nella parte finale del ragionamento di Paleari (riga 94 e segg.).

La verità del buio

La verità non consiste nei lanternini e nei lanternoni, ma proprio nel buio. Il buio che è oltre l’illusoria visione fornita dalle lanterne umane non è morte e mistero: è semplicemente la vita universale. La morte non esiste, come non esiste nella realtà della natura il limite che separa la luce delle lanterne dal buio: l’uomo è sempre immerso – prima e dopo la morte, consapevole o inconsapevole – nell’universo, sempre vive e vivrà in esso. Privilegiata, dunque, è la condizione di cecità in cui si trova Meis: il buio gli consente di capire, senza essere condizionato dalla luce ingannevole dei lanternini (è un altro modo – come l’occhio strabico – per sottolineare la visione “diversa” del personaggio).

OPERA: L’esclusa

Un romanzo di ispirazione verista pubblicato a puntate sulla rivista “Tribuna” nel 1901 e poi in volume nel 1903. Anche se la bozza risaliva al 1893 e aveva il titolo di “Marta Ajala”, la protagonista.

Trama

Marta viene sorpresa dal marito in camera sua mentre legge furtivamente una lettera d’amore, ricevuta da un giovane del paese Gregorio Alvignani, che si era invaghito di lei. Il marito la accusa ingiustamente di averlo tradito e la caccia di casa. Lei è quindi costretta a tornare dai genitori, ma il padre muore di crepacuore, la madre la detesta e lei deve cercare un lavoro, perché altrimenti lei e sua madre non saprebbero di che vivere. Mettendo a frutto i suoi studi magistrali, superato un concorso riesce a trovare un impiego come insegnante in un collegio religioso di Palermo. A distanza di qualche anno rivede Alvignani, che è diventato un politico di successo e che è sempre attratto da lei. Dopo una corte serrata lei finalmente cede alle lusinghe dell’uomo. Qualche tempo dopo però rimane incinta e il suo amante non vuole proprio saperne del bambino, è proiettato esclusivamente verso la carriera e un incidente di percorso potrebbe danneggiarlo. Del resto ormai Marta non gli interessa più come un tempo. Una sera Marta viene chiamata in fretta e furia al capezzale di una donna morente. Si tratta della suocera, che viveva da sola a Palermo e che in gioventù aveva subito la sua stessa sorte, era stata anche lei accusata dal marito di averlo tradito. Considerate le particolari circostanze, Marta decide di passare sopra alle offese ricevute dal marito, che non le aveva neanche consentito di spiegare, chiama Rocco. Rocco accorre immediatamente Ed entrambi assistono all’agonia della donna, che muore però felice per il fatto di sapere che il figlio aveva sposato una brava ragazza. Paradossalmente proprio adesso che Marta ha commesso adulterio e aspetta un figlio dall’amante, il marito la vuole a tutti i costi e la porta a casa.

Nella vicenda Pirandello stigmatizza pregiudizi e ipocrisia della società siciliana dell’epoca. Allo stesso tempo confuta anche uno dei principi di fondo del verismo, il nesso causa-effetto: infatti una causa inesistente provoca un effetto reale, mentre una causa reale non provoca nessun effetto.

OPERA: Suo marito   (1911)

Il protagonista maschile si chiama Giustino Boggiòlo, modesto impiegato, la tipica figura dell’inetto, ma sposa una giovane scrittrice bella quanto talentuosa, Silvia Roncello, destinata ad avere un brillante futuro. Dopo che la moglie diventa celebre, Giustino rivela uno straordinario fiuto negli affari, tanto da diventarne l’agente letterario. Trascurando il proprio lavoro e la propria carriera per seguire quella della moglie, si espone alla malignità dei colleghi d’ufficio, che cominciano a prenderlo in giro appioppandogli anche un soprannome, che nell’epoca improntata a una prospettiva maschilista, doveva suonare davvero come insopportabile, lo chiamano Roncello rendendo quindi al maschile il cognome della moglie.

Le conseguenze sul piano privato non tarderanno ad arrivare, infatti l’inettitudine di lui e il successo di lei creano tensioni e conflitti destinati a sfociare in una separazione.

Pirandello ebbe difficoltà a far stampare il romanzo, perché gli editori ai quali lo portava si rifiutavano, in primis il Treves, perché vi riconoscevano il tentativo di prendere in giro Palmiro Madesani, marito di Grazia Deledda, per screditare la scrittrice sarda. D’altronde non era un segreto per nessuno che Pirandello detestasse la Deledda e insultasse il marito, tanto che più volte si azzardò a chiamarlo in pubblico Grazio Deleddo. Proprio perché, anche Madesani aveva rinunciato alla propria carriera per sostenere e supportare quella della moglie.

La Deledda e Madesani si erano conosciuti nel 1899 a Cagliari in casa di Maria Manca, fondatrice e direttrice della rivista “la donna sarda”, per la quale la Deledda aveva scritto qualche articolo.

Si erano piaciuti avevano cominciato a frequentarsi, ma nel giro di pochissimo tempo lei e Madesani, che all’epoca era funzionario del ministero delle finanze, erano convolati a nozze. Il matrimonio era stato celebrato Nuoro l’11  gennaio del 1900. Dopo il matrimonio i due si erano trasferiti a Roma e Madesani aveva lasciato il lavoro di funzionario statale per dedicarsi esclusivamente all’attività di agente letterario della moglie. Il loro ménage (convivenza) familiare per quanto anomalo funzionava benissimo.

La Deledda con lui aveva realizzato il sogno di diventare prima moglie e poi madre. Poi nella grande città a Roma era riuscita ad avere i contatti giusti e ad affermarsi come scrittrice, anche a livello internazionale grazie all’abilità di stabilire contratti all’estero di suo marito. Il 10 dicembre 1926 aveva addirittura ottenuto il Nobel per la letteratura, cosa che aveva indispettito non poco Pirandello. Queste le motivazioni del premio: «per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano». Ricevette per questo anche le congratulazioni da Mussolini.

Sicuramente lo scrittore siciliano invidia la felicità della coppia Deledda-Madesani, anche considerando la tragedia che si è abbattuta invece sul suo matrimonio. Ma agli occhi di Pirandello, La Deledda ha soprattutto la colpa di essere una donna consapevole del proprio valore e economicamente indipendente, che oltretutto si sta affermando, anzi si è affermata in un ambito quasi esclusivamente maschile.

Del resto la figura maschile patriarcale proprio in quegli anni comincia ad essere messa in discussione, ad essere scalfita anche se molto lentamente.

Nel 1919 la legge Sacchi, aveva riconosciuto l’uguaglianza giuridica della donna maritata, abrogando l’istituto dell’autorizzazione maritale e consentendo alle donne di essere ammesse nei pubblici impieghi. Anche se poi a distanza di un solo anno era stato emanato un regolamento che stabiliva tutta una serie di eccezioni: le donne infatti non potevano accedere alla magistratura, alla carriera militare e alle cariche direttive dello stato. In quegli stessi anni, molte donne si erano anche avvicinate pubblicamente e apertamente senza usare pseudonimi maschili alla letteratura e tanti scrittori avevano iniziato a temerne la concorrenza. L’unico mezzo che avevano per combatterla era quello di screditarle pubblicamente in qualunque modo, anche attaccando la vita privata oppure sostenendo la presunta inferiorità della cosiddetta letteratura femminile.

OPERA: I quaderni di Serafino Gubbio operatore

Il cinema degli anni trenta, come abbiamo visto, si era spesso interessato alle opere di Pirandello, realizzando film a partire dai suoi testi.

Esempi: “come tu mi vuoi”, “ma non è una cosa seria”, “pensaci Giacomino”, “il fu Mattia Pascal”.

Già molti anni prima però Pirandello aveva fatto della nascente industria cinematografica l’argomento di un suo romanzo, inizialmente intitolato “Si gira”, uscito a puntate nella rivista “Nuova Antologia” nel 1915 e raccolto in volume l’anno dopo, e poi ripubblicato nel 1925 con il titolo definitivo di “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”.

Il cambio di titolo comporta lo spostamento psicologico dallo spazio della macchina da presa e dell’immagine, a quello dei quaderni e della scrittura. Si tratta di una sorta di diario di un cineoperatore che espone le proprie riflessioni sulla vita e sulla modernità, e narra la sua vicenda umana fino al drammatico epilogo che lo ha reso muto. Nel romanzo l’illusione cinematografica è studiata con interesse ma rappresentata con grande diffidenza sino a una vera e propria condanna. per Pirandello la macchina da presa si nutre infatti della vita e la converte in cosa, diverrà cioè la realtà naturale e la trasforma in merce, prodotto di consumo.

STRUTTURA: Il libro è costituito da sette sezioni/quaderni a loro volta suddivisi in capitoli, narrati in prima persona da Serafino Gubbio in forma retrospettiva, con continui salti temporali e inserimenti di racconti nel racconto attraverso quella tecnica “Ekphrasis o digressione”. Si riconoscono nell’opera frammenti di modelli narrativi tradizionali: Il romanzo di formazione di un giovane studioso in cerca di fortuna e il romanzo sentimentale e drammatico tanto caro al pubblico borghese. Il modello narrativo trasmesso dalla tradizione è però stravolto dal contatto con la modernità. La formazione del giovane non si compie, il suo sapere umanistico non trova spazio nel presente, la vicenda sentimentale e narrata si trasforma in una volgare atrocità. I luoghi ricordati trasmettono desolazione, su tutto domina la città industriale, nella quale le macchine agiscono come mostri che divorano l’anima degli uomini.

TRAMA

Serafino Gubbio, dopo una formazione umanistica appassionata ma resa difficile dalla mancanza di denaro, si trasferisce a Roma, dove è accolto in un ospizio per poveri da un amico, anch’egli intellettuale caduto in disgrazia. Casualmente nello stesso ricovero giunge una troupe cinematografica per girare alcune scene di forte realismo, e a Serafino viene offerto un posto da operatore, ossia addetto alla macchina da presa. Serafino accetta perché incuriosito dalla prima attrice della Cosmograph, Varia Nestoroff, affascinante volubile, di cui egli conosce alcuni segreti. Anni prima, infatti, a Sorrento la donna era stata fidanzata di un compagno di studi di Serafino, Giorgio Mirelli, il quale si era tolto la vita, sconvolto da un tradimento di lei con il comune amico Aldo Nuti, proprio alla vigilia delle nozze. Perennemente inquieta, Varia ha avuto in seguito molte relazioni, scegliendo spesso uomini rozzi e volgari, in una sorta di ossessione punitiva.

Ora è legata allo squallido Carlo Ferro, ma nel film in lavorazione recita anche Aldo Nuti che insieme la desidera e la disprezza. Alla Cosmograph stanno preparando un nuovo film di soggetto indiano, “la donna e la tigre”, con una scena finale particolarmente rischiosa, in cui un cacciatore dovrebbe affrontare una tigre vera. Il ruolo del cacciatore è affidato inizialmente a Carlo Ferro, ma all’ultimo momento Aldo Nuti si offre di sostituirlo. Serafino, nel ruolo di operatore, registra con il suo sguardo ogni cosa sino alla catastrofe. Nella scena finale del film è previsto che Aldo spari ad una vera tigre, e entrato in una gabbia che simula la giungla, tutta ricoperta di fronde, l’uomo rivolge il fucile contro Varia e la uccide, ma viene a sua volta sbranato dalla tigre.

Tutta la scena, registrata impassibilmente da Serafino, entra a far parte del film che ottiene un enorme successo perché suscita la curiosità morbosa del pubblico. L’operatore invece piomba in un mutismo irreversibile da cui esce soltanto attraverso la scrittura dei suoi quaderni.

Pirandello si era liberamente ispirato ad un fatto reale. Nel 1913 infatti, durante la lavorazione del film “il mistero di Jack Hilton”, si era verificato un incidente che aveva distrutto per sempre la bellezza e la carriera di una delle più promettenti attrici dell’epoca, Adriana Costamagna. L’attrice, che aveva rifiutato la controfigura in una scena con un leopardo, era stata aggredita dalla belva, che le aveva sfigurato irrimediabilmente il viso. La crudeltà del destino si era intrecciata con la crudeltà della legge del profitto: la casa cinematografica aveva sfruttato l’incidente nel lancio pubblicitario, determinando una morbosa curiosità di pubblico intorno al film e di conseguenza un successo commerciale senza precedenti.

l rapporto di Pirandello con la civiltà moderna è contraddistinto da un atteggiamento di rifiuto derivante da

  • l’originario radicamento dell’autore nella società contadina,
  • una diffidenza maturata criticamente nei confronti dell’industrializzazione e della macchina.

Nella visione del mondo e nella stessa produzione letteraria di Pirandello, gli sviluppi delle scienze applicate e le innumerevoli innovazioni tecnologiche di inizio secolo costituiscono elementi stridenti, problematici.

Al culto futurista della macchina egli contrappone una lucida consapevolezza dei risvolti negativi della trionfale celebrazione del nuovo.  Velocità, potenza, produttività, energia, in nome di questi miti moderni si consuma quotidianamente, secondo l’autore, il sacrificio del sentimento, della coscienza e della memoria.  Luogo simbolo di una meccanizzazione industriale fuori controllo è la città moderna, dalla quale Pirandello si sente insieme attratto e respinto.

Ne “il fu Mattia Pascal” vengono descritte due città esemplari: Milano e Roma. Il protagonista prima si aggira spaesato tra la folla milanese rintronato dal frastuono e dal fermento continuo della città, stupito e inquieto di fronte allo sferragliare dei tram e all’abbagliante miracolo della luce elettrica. Ma in ultima analisi, non viene conquistato dal fascino della vita cittadina, né persuaso circa le possibilità di trovarvi una forma spontanea di vivibilità. Si sposta successivamente a Roma dove però gli sembra di trovare soltanto un passato di cartapesta, il ricordo degli antichi fasti sgradevolmente mescolato ai primi accenni di modernità.

Pirandello tuttavia non cerca rifugio nel topos letterario del ritorno alla natura né in senso cronologico né in senso spaziale. La società preindustriale da una parte e la vita della provincia dall’altra, restano soltanto velleitari sogni di evasione. Egli non idealizza il mondo rurale come in quegli stessi anni fa ad esempio Pascoli, ne esalta la condizione premoderna di cui registra piuttosto il disfacimento. Non vede dunque alcuna via di fuga dalla vuota frenesia della società industriale; l’umanità contemporanea è destinata a restare sospesa tra vecchio e nuovo senza riuscire ad adattarsi a nessuna delle due dimensioni.

Al centro della civiltà moderna, a guidare la corsa senza fine al progresso, si erge imperiosa la macchina, prodotto della tecnologia che dovrebbe aiutare l’uomo e in realtà, secondo Pirandello, la macchina ha il carattere inquietante e minaccioso di un essere vampiresco e parassitario, che si ribella al suo creatore per soppiantarlo. Il protagonista dei quaderni di Serafino Gubbio operatore, ad esempio, è consapevole del fatto che un giorno verrà sostituito proprio da un congegno meccanico in grado di svolgere il suo lavoro, semplicemente girare una manovella.

Non a caso l’immaginario pirandelliano insiste molto sull’analogia macchina-mostro. L’autore dissemina ovunque metafore sulla fame, sulla digestione, sul fare a pezzi e a bocconcini quel poco di verità che ancora è possibile trovare nella società industriale e commerciale, e in particolare nella nuova industria di intrattenimento; il cinema, che segna lo stupido trionfo della realtà artificiale su quella autentica.

Nel denunciare i rischi di omologazione connessi all’avvento della civiltà meccanizzata, Pirandello avverte il pericolo della mercificazione dell’opera d’arte, grazie alla sua riproducibilità consentita dalle moderne tecnologie (in particolare cinema e fotografia), vengono irrimediabilmente intaccate l’unicità e l’irripetibilità del prodotto artistico.

Nel suo celebre saggio del 1936 “l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” il filoso tedesco Walter Benjamin fornirà la spiegazione più completa di questo processo, citando proprio i “quaderni di Serafino Gubbio operatore” nel suo discorso della demitizzazione della creazione estetica nella società di massa. L’opera d’arte scrive Benjamin, ha perso la sua aura, quell’aspetto indefinibile e proprio per questo non riproducibile, che infonde un’anima viva a un semplice oggetto materiale.

La crisi dell’opera d’arte è vista da Pirandello proprio nell’occhio di vetro, vuoto e inanimato dell’apparecchio fotografico o cinematografico, in cui l’autore non può riflettersi e dunque riconoscersi. Privati del contatto con il pubblico, ma nemmeno compensati con una restituzione diretta della propria immagine, che viene soltanto in un secondo momento sullo schermo, gli autori non possono che finire per odiare la macchina da presa e il suo prodotto, perché l’azione viva del loro corpo vivo sulla tela dei cinematografi non c’è più. Questa riduzione della persona-oggetto a immagine priva di vita è simbolo dell’alienazione dell’individuo moderno.  l’impudenza dell’occhio di vetro diviene metafora della disumanità celata dietro il fascino della tecnica.

OPERE: Uno, nessuno e centomila

STESURA: il romanzo è frutto di una lunghissima elaborazione: iniziato nel 1909 completa solo nel 1925

PUBBLICAZIONE: Prima a puntate sulla rivista La fiera letteraria e poi in volume nel 1926

Vi confluiscono spunti e suggestioni in parte già espressi

  • Nel saggio l’umorismo
  • In alcune novelle scritte tra il 1909 e il 1913

Nella produzione letteraria di Pirandello uno nessuno e centomila riveste un duplice ruolo:

  • Chiude la stagione dei romanzi portando alle estreme conseguenze il percorso di critica al concetto di identità iniziato con il fu mattia pascal e proseguito con Quaderni di Serafino Gubbio Operatore
  • Dall’altro riflette il passaggio a una nuova fase di poetica che si esprimerà nell’attività teatrale e in alcune novelle della cosiddetta stagione dei miti e del surrealismo: in questa fase assume un ruolo centrale la natura intesa quale energia istintiva e slancio vitale come appunto suggerisce la conclusione di uno nessuno e centomila

IL TITOLO. L’idea centrale nel romanzo è sintetizzata nel titolo: il protagonista, che si è sempre creduto uno – ossia dotato di una personalità fissa e coerente – scopre che gli altri lo vedono in modo diverso da come egli pensa. Alla sua rappresentazione di sé, non si contrappone però una sola immagine alternativa ma centomila diverse, tante quante sono i soggetti che osservano. Inoltre l’idea che il protagonista ha di sé non può imporsi come la più forte o veritiera: le altre 100.000 appaiono tutte parimenti legittime per quanto limitate e inconsistenti: si rende così conto di essere nessuno e sceglie coscientemente di rifiutare qualsiasi identità. La definitiva scomparsa dell’io non è percepita dal protagonista come una morte bensì come una liberazione; essa gli permette infatti di annullare la propria forma individuale, riduttiva e falsa e di entrare nella vita allo stato puro quella della natura

Uno: rappresenta l’immagine che ogni essere umano ha di sé;

Nessuno è ciò che il protagonista della storia sceglie alla fine di essere;

Centomila ritrae l’immagine che gli altri hanno di noi;

Ogni essere umano che nella sua mente una visione soggettiva di ciò che ogni singolo individuo rappresenta, in base delle supposizioni; nella società un uomo non è “uno” agli occhi degli altri ma è “100.000” individualità

TRAMA

Vediamo nella trama Vitangelo Moscarda, soprannominato Genge dalla moglie, vive una vita agiata e senza responsabilità grazie alle immense ricchezze del padre dal quale ha ereditato una banca e alcuni appartamenti gestiti da due amici di famiglia Firbo e Quantorzo. Vitangelo ha vissuto quasi 30 anni senza avere nessuna consapevolezza di ciò che gli altri pensino di lui ma una banale osservazione della moglie mentre indugia davanti allo specchio il naso pende verso destra si scatena l’ossessione di scoprire le maschere che gli altri gli attribuiscono: si accorge così con stupore di essere considerato un usuraio in quanto figlio di un uomo arricchitosi attraverso prestiti ad alto interesse, un inetto negli affari, un fannullone, persino quello che la moglie identifica come il suo Gengè gli appare come uno sciocco estraneo con pregi e difetti in cui non si riconosce proprio. Inizia dunque a comportarsi in modo opposto alle attese per distruggere tutte le rappresentazioni che gli altri hanno di lui: si occupa della banca nonostante le resistenze dell’amministratore; sfratta un povero artista cui il padre aveva concesso in usufrutto gratuito un piccolo alloggio suscitando lo sdegno dei compaesani; poi contro le attese di tutti dona all’uomo una casa migliore ma invece di essere elogiato viene giudicato folle; litiga con la moglie che pure ama e la maltratta spingendola a lasciarlo; vorrebbe liquidare la banca e le sue proprietà ma la moglie e i soci si adoperano per farlo interdire come pazzo. Avvertito da questo piano da un’amica della moglie, Anna Rosa, Vitangelo si accorda con un religioso per devolvere in beneficenza tutti i suoi beni. Con il suo convulso ragionare suscita però un forte turbamento in Anna Rosa che durante un colloquio lo ferisce con un colpo di pistola: tutto il paese crede ora che i due siano amanti ma al processo Vitangelo stagiona Annarosa attribuendo il ferimento al caso; infine viene ricoverato in un ospizio per i poveri da lui stesso fatto costruire in cui pensa finalmente di poter trovare la pace dopo aver rifiutato tutte le istituzioni sociali, i matrimoni, i beni le relazioni, le memorie, il proprio nome: non cerca di fissarsi in una nuova identità ma si abbandona alla mutazione continua delle cose, sentendosi capace di superare il limite individuale attraverso l’immersione nella vita universale, continua, indifferente, sottratta al tempo umano, decide cioè di trascorrere il resto della sua vita in manicomio dove può essere semplicemente il signor “nessuno”.

STRUTTURA: Il romanzo è suddiviso in 8 sezioni o libri e 63 brevi capitoli ma la struttura tradizionale non riesce ad arginare quella che il critico Gian Carlo Mazzacurati ha definito la fiumana ribollente incontenibile dell’ininterrotto ragionare di Vitangelo: alla distruzione dell’io corrisponde infatti la dissoluzione della struttura logica del racconto; la trama procede per sbalzi, soste riflessive, ritorni all’indietro, in una sorta di diario eterogeneo, in cui l’atto di dire e riflettere diventa più importante dei fatti stessi;

CARATTERISTICHE:

il narratore parla in prima persona in forma retrospettiva ma senza abbandonare la focalizzazione sul personaggio: come in Mattia Pascal, Vitangelo presenta infatti le vicende dal punto di vista di chi le sta vivendo in quel momento rinunciando a dare spiegazioni che derivino dalla conoscenza dell’esito finale della storia;

La forma predominante è quella del monologo interiore a cui subentra spesso una sorta di dialogo con il lettore che viene chiamato in causa con degli apostrofi e incalzato attraverso allocuzioni come

  • mi si può porre;
  • siate sinceri a voi non è mai passato per il capo;
  • pari a voi che non c’entri questo discorso

TEMATICHE: Nel romanzo compaiono molti temi propriamente pirandelliani:

  • Relativismo assoluto: per Pirandello – lo sappiamo – non esiste un’identità né una verità univoca in grado di imporsi su tutte le altre; il libro smonta proprio le illusioni iniziali di Vitangelo: mi ero creduto finora un uomo nella vita un uomo così e basta dimostrando che non esiste affatto un “così”: ci sono mille modi diversi di apparire a sé stessi e agli altri
  • l’incomunicabilità e la solitudine: poiché la percezione di sé e degli altri è sempre soggettiva, si crea il paradosso per cui gli uomini non parlano davvero tra loro, ma ciascuno si rivolge all’immagine che ha dell’altro.
  • La follia, poiché Vitangelo parla e si comporta in modo inatteso, incoerente, inspiegabile: viene considerato pazzo; alla fine indossa fisicamente la maschera del pazzo presentandosi al processo in zoccoli, con l’uniforme dei poveri dell’ospizio e con la barba lunga. La follia, tuttavia non è vissuta come una sconfitta ma come una sorta di guarigione dal male della vita.

Il protagonista infatti ha capito che la terapia coincide con il male, ossia che si può fuggire dalla follia che domina la vita sociale soltanto accettando di essere considerati folli. La distruzione dell’identità individuale è infatti la condizione necessaria, la conditio sine qua non per liberarsi da ogni maschera e da ogni limitazione alla vita. Secondo il figlio Stefano che scrisse una prefazione per la rivista su cui venne pubblicata la prima puntata di Uno nessuno e centomila il libro è stato per tanti anni un rifugio per il padre un luogo ora di pace ora di tormento in cui egli ha esercitato ininterrottamente il proprio spirito.

Partendo da questa indicazione il critico Mazzacurati propone di interpretare il romanzo in senso autobiografico, come una camera di compensazione in cui lo scrittore ha tentato di scomporre, ovvero sminuzzare e rendere umoristicamente governabili attraverso la scrittura, molte ossessioni anche sue: in primo luogo la malattia mentale della moglie; il rapporto con il padre; la delusione per il mancato rinnovamento della società da parte di una classe borghese inadatta al proprio compito.

Forma di autoanalisi? Il romanzo potrebbe dunque essere letto come un esempio di autoanalisi, un modo per liberarsi da tali angosce della vita proiettando sui personaggi la propria voglia di abbandonarsi all’irresponsabilità della follia. La lunga gestazione dell’opera sarebbe dunque da spiegarsi come il tentativo dello scrittore di mantenere uno schermo fra sé e la follia della moglie

La prefazione del figlio Stefano scompare però nell’edizione volume del 1926 e si può forse pensare che quella autobiografica potesse apparire a Pirandello una chiave di lettura riduttiva rispetto alle funzioni che egli intendeva attribuire al proprio romanzo-saggio: la presenza di un continuo dialogo con il lettore che viene invitato a sporgersi sullo stesso avviso di pazzia su cui si protende Vitangelo suggerisce piuttosto che la follia non riguardi una singola vicenda individuale ma faccia piuttosto parte della condizione umana e sia lo strumento più efficace per smascherare gli artifici della vita

OPERA: ENRICO IV

Testo teatrale a tesi filosofica in 3 atti, andato in scena a Milano nel febbraio del 1922 con grande successo.

Motivi che lo permeano:

  • Solo la società stabilisce i parametri per sanità mentale e follia;
  • La distinzione tra illusione e realtà è indefinibile;
  • La vita è teatro così come il teatro è vita.

Il titolo suggerisce l’idea di una vicenda shakespeariana ma molti elementi impediscono la realizzazione di una vera e propria tragedia: Il protagonista non è un vero imperatore, la reggia in cui vive è finta, i cortigiani consiglieri sono uomini e donne moderni mascherati da dignitari dell’XI secolo.

I PERSONAGGI

• La commistione di alto e basso, di verità e finzione è ben visibile nell’aspetto dei due protagonisti: il gentiluomo che nell’opera è designato con il nome di Enrico IV e la donna da lui amata, Matilde.

Nelle didascalie Pirandello richiede che essi compaiono in scena con un pesante trucco che li rende simili a maschere.

Enrico IV

  •  è un 50enne già grigio sul dietro del capo, invece sulle tempie e sulla fronte appare biondo per via di una tintura quasi puerile molto evidente e sui pomelli ha un trucco rosso da bambola.
  • Per interpretare questo personaggio Pirandello vuole l’attore Ruggero Ruggeri.

Matilde

Ha circa 45 anni ed è ancora una donna attraente, per quanto con troppa evidenza ripari agli inevitabili guasti dell’età con una violenta ma sapiente truccatura che le compone una fiera testa di Valchiria (cioè simile a una dea nordica, bionda ed estremamente vistosa).

LA TRAMA

Una villa della campagna Umbra (all’inizio del 900) vide un gentiluomo convinto di essere Enrico IV di Germania. Molti anni prima aveva indossato i panni dell’imperatore medievale per una sfilata in costume e Matilde, donna che amava ma che lo respingeva, aveva assunto il ruolo della marchesa Matilde di Canossa.

Nel corso della parata il cavallo si era imbizzarrito e il gentiluomo era caduto battendo la tesa per terra. Al risveglio, vedendo gli abiti che portava e disorientato dal lungo studio fatto per interpretare a dovere quel personaggio aveva creduto di essere Enrico IV.

Per assecondare la sua follia era stata allestita nella villa una sala del trono, erano stati rimossi tutti i segni della modernità e assoldati quattro figuranti che li tenessero compagnia in qualità di consiglieri segreti.

Inoltre ogni persona che fosse venuta da lui avrebbe dovuto indossare abiti d’epoca e fingere di essere un personaggio storico.

Vent’anni dopo l’incidente Matilde, che si era sposata ed era diventata vedova, fa visita ad Enrico IV insieme con Belcredi (antico rivale del protagonista e ora amante della donna). Insieme a loro c’è anche un medico che vuole esaminare il singolare caso di pazzia per trovarvi un rimedio. Sfruttando la grande somiglianza della figlia di Matilde, Frida, con la madre, il dottore spera di procurare un salutare trauma al paziente vedendo le due donne l’una accanto all’altro, il protagonista, a giudizio del medico, riuscirà a percepire la differenza tra finzione e realtà, tra passato e presente.

I visitatori però ignorano che Enrico IV è già rinsavito. Dopo dodici anni di follia egli ha recuperato la ragione, ma rendendosi conto di aver perso, nell’inconsapevolezza, il tempo migliore della sua vita, ha scelto di continuare a recitare la parte del pazzo per proteggersi dal mondo.

Quando Matilde, Belcredi e il medico lo incontrano egli gli disorienta con un lucido delirio in cui unisce accenti di tenerezza, recriminazioni e accuse, riferendosi a figure dell’XI secolo ma alludendo in realtà alle persone di fronte a lui. Disgustato dalla sua stessa finzione rivela ai quattro consiglieri di essere tornato in se. Intanto però il piano procede come stabilito, Frida vestita con l’antico abito della madre si nasconde in una nicchia e si mostra improvvisamente ad Enrico IV, che talmente turbato corre il rischio di impazzire di nuovo. Matilde, Belcredi e il dottore irrompono nella sala proprio in quel momento poiché nel frattempo i consiglieri li hanno informati della sua guarigione e lo invitano ad abbandonare la finzione.

Enrico IV spiega le sue ragioni e rivela che la caduta da cavallo non è stata accidentale ma provocata intenzionalmente da qualcuno. Matilde si professa ignara di ogni cosa mentre Belcredi cerca di sminuire il peso delle affermazioni di Enrico IV. Il dialogo si fa sempre più teso fino all’esplosione della violenza. Enrico IV tenta di abbracciare Frida, nella quale rivede la donna che ha amato, e quando Belcredi vuole impedirglielo il protagonista lo trafigge con una spada. A quel punto non potrà far altro che continuare a recitare la parte del pazzo ed essere Enrico IV per sempre.

La vicenda storica a cui si ispirano i protagonisti per la loro mascherata è quella dello scontro tra l’imperatore Enrico IV di Germania e papa Gregorio VII, al tempo della lotta per le investiture tra XI e XII secolo.

Nel 1077, dopo essere stato scomunicato, l’imperatore cercò di tenere udienza dal pontefice, che era ospite a Canossa presso la sua feudataria Matilde di Toscana. Secondo la tradizione il papa rifiutò di riceverlo, obbligandolo ad attendere per tre giorni e tre notti all’esterno del castello. Infine acconsentì di incontrarlo e a cancellare la scomunica, riconoscendo a Enrico IV la legittimità al trono.

•La cornice storica è soltanto un pretesto. Infatti i temi centrali dell’opera sono il trascorrere del tempo, la vita come recita e come finzione e soprattutto la pazzia o l’alienazione.

•Per Pirandello l’ALIENAZIONE è un elemento fondamentale della condizione umana nella quale poter stemperare la propria angoscia e il proprio dramma. Per questo lo scrittore cerca, nella propria opera, un continuo contatto con il pubblico/lettori e approda al teatro come definitiva ricerca del dialogo con gli spettatori. Un dialogo che a detta di Pirandello è senz’altro più immediato e caldo di quello che potrebbe realizzarsi con i lettori, perché il lettore si può rifiutare di continuare a leggere chiudendo il libro. Mentre per Pirandello lo spettatore è comunque costretto a stare seduto sula propria poltrona fino alla fine della rappresentazione, se non altro per educazione e per rispetto nei confronti degli altri spettatori.

IL TEATRO

I segni di una vocazione teatrale precoce, sono visibili già nelle opere anteriori al 1910 e nell’elaborazione teorica dell’umorismo.

I primi atti unici sono rappresentati nel 1910 e soltanto dal 1915 l’attività teatrale diventa per lui un interesse costante.

Le novelle presentano molti dialoghi, scambi dialettici e battute meditative. I romanzi sono punteggiati da locuzioni al lettore che danno l’impressione di assistere ad un soliloquio del protagonista davanti ad un pubblico. Inoltre lo scontro tra come si è e come si appare, che costituisce la sostanza della narrativa pirandelliana, sembra quasi suggerire come completamento naturale, la possibilità di rendere visibile su un palcoscenico, la contrapposizione tra i due stati. Infine si può considerare teatrale l’idea umoristica che la vita sia di per sé un enorme “pupazzata”, in cui ciascuno recita una parte, indossa una maschera con la quale inganna gli altri, ma soprattutto inganna sé stesso.

Pirandello tuttavia in alcuni testi teorici esprime una certa diffidenza nei confronti del teatro poiché sostiene che

  • la rappresentazione scenica finisca per falsare la volontà dello scrittore, dal momento che l’allestimento non aderisce mai pienamente al testo.
  • Sbagliano gli attori che tendono ad improvvisare o a caricare troppo i toni per mostrare il proprio talento e i direttori di scene (i registi) che non si attengono da quanto stabilito dal commediografo.

Per questo motivo, a un certo punto della sua vita, Pirandello sceglierà di curare in prima persona gli allestimenti delle sue opere e si avvarrà di docili interpreti come Ruggero Ruggeri e Marta Aba, in grado di calarsi totalmente nei personaggi secondo le sue indicazioni.

1936: Esce La raccolta completa delle opere teatrali, oltre a 40 drammi in italiano e una dozzina in siciliano

TITOLO: Sceglie il titolo di “Maschere Nude” titolo scelto dall’autore fin dal 1912, per il primo volume.

Questo titolo può essere considerato paradossale o ossimorico: la maschera indossata dall’attore copre il suo volto e gli conferisce un’identità pubblica per quanto variabile, ma qui è nuda perché maschera in latino si dice “persona” che indica sia l’individuo che il suo personaggio.

Del resto per Pirandello gli uomini nella vita recitano una parte senza esserne consapevoli, si muovono come personaggi su di un palcoscenico come pure e semplici maschere. Alcuni tra loro però arrivano a comprendere l’artificiosità del meccanismo sociale e attraverso il ragionamento svelano gli autoinganni e le contraddizioni di cui tutti sono partecipi.

Le innumerevoli potenziali forme che possiamo assumere ci possono condurre a due situazioni:

  • A sperimentare diverse possibilità di esistere fino a trovare la nostra verità, il nostro sentirci individui ed esseri unici e indivisibili.
  • A farci disperdere nella confusione di ruoli che un po’ ci somigliano, ma nei quali ci è impossibile riconoscerci a pieno.

All’interno della produzione teatrale di Pirandello, vengono di solito individuati tre momenti distinti:

1) le prime esperienze teatrali, con le opere in dialetto e il teatro del grottesco

2) il teatro nel teatro

3) il teatro dei miti.

Tuttavia l’opera drammaturgica di Pirandello nel suo insieme va considerata non come un percorso gerarchico, composto da tappe separate verso una presunta meta successiva, ma come un blocco unitario e multiforme, una sorta di prisma i cui elementi costitutivi sono presenti tutti insieme fin dall’inizio e ruotano via via secondo le intenzioni dello scrittore.

1. LE PRIME ESPERIENZE TEATRALI

Tra il 1910 e il 1919 Pirandello scrive alcune commedie in dialetto siciliano, in parte derivate da novelle preesistenti che vengono messe in scena con successo grazia alla collaborazione con la compagnia teatrale dell’amico Nino Martoglio.

Tra i testi più noti ricordiamo: I Lumie DI SICILIA, LIOLA’, LA GIARA, IL BERRETTO A SONAGLI E LA PATENTE.

Sebbene l’ambientazione siciliana possa far pensare a un debito con il verismo, in realtà Pirandello, tanto in queste opere quanto nella contemporanea produzione in italiano, inizia un lavoro di scardinamento della tradizione naturalista che sfocia nel teatro del grottesco.

Dal 1915, con la messa in scena della prima commedia in italiano in 3 atti, accolta con molta freddezza dal pubblico e rappresentata una sola sera e sino al 1921, Pirandello introduce nelle sue opere due strumenti sconosciuti sia al teatro verista sia al dramma borghese cioè l’ironia e la progressiva sostituzione dei sentimenti con la ragione. Insieme ai personaggi di tipo tradizionale, compaiono personaggi nuovi che invece di agire o abbandonarsi all’effusione dei sentimenti, esprimono continuamente considerazioni su sé stessi e su gli altri, la riflessione, propria dell’umorismo, induce il pubblico a ridere delle assurdità ma anche a cogliere l’amarezza della condizione umana e fa emergere le contraddizioni nascoste sotto le maschere della vita sociale.

Nei drammi scritti da Pirandello tra il 1915 e il 1921:

  •  gli elementi tipici del dramma borghese assumono connotati grotteschi (strani, ridicolo), in una sorta di parodia delle situazioni convenzionali.
  • I ruoli classici del triangolo amoroso (marito, moglie, amante) sono assunti dai personaggi sin alle estreme conseguenze, al punto che morire in un duello per difendere l’onore d’una donna, spetta non al marito ma all’amante che con lei esercita il ruolo del marito.

Se l’ipocrisia domina il mondo, l’unico modo per gridare una verità sgradevole, senza andare in contro a conseguenze tragiche è fingersi pazzi come svela lo scrivano Ciampa alla signora Beatrice, entrambi traditi dai rispettivi coniugi ma non disposti ad affrontare lo scandalo fino in fondo (berretto a sonagli del 1917).

La parte che la società impone a un uomo può essere molto pesante da sostenere ed egli deve trovare una via d’uscita, se le dicerie di paese attribuiscono a Chiàrchiaro la fama di iettatore, determinando gravi conseguenze sulla sua famiglia e facendogli addirittura perdere il posto di lavoro, costui reagisce pretendendo un documento che certifichi il suo ruolo di menagramo, da poter usare a proprio vantaggio ricattando i negozianti (PATENTE 1917).

D’altra parte tutto sfugge, non esiste più una verità certa e oggettiva.

IL LINGUAGGIO. Poiché lo scopo del teatro grottesco è far riflettere lo spettatore sulla relatività della conoscenza, sull’ipocrisia e l’assurdità dei ruoli sociali, il linguaggio adottato è estraniante, impedisce cioè l’immedesimazione emotiva dello spettatore attraverso continue interruzioni, frasi concitate, soliloqui, interrogazioni ed esclamazioni, sotto intesi ed allusioni sarcastiche.

2. IL TEATRO NEL TEATRO

Nel corso degli anni 20, Pirandello dedica 3 opere a una riflessione metateatrale, ossia mette in scena questioni che riguardano il teatro tesso, in particolare il conflitto tra i diversi elementi che lo compongono. ESEMPI:

  • Tra i personaggi da un lato, gli attori e il direttore di scena (il regista) dall’altro in “sei personaggi in cerca d’autore” del 1921.
  • Tra il pubblico da una parte e l’autore e gli autori dall’altra “in ciascuno al suo modo” del 1924
  • Tra gli attori e il direttore di scena (il regista) in “questa sera si recita a soggetto” del 1930.

In questa trilogia trovano spazio le su idee più innovative sul personaggio, sulla trama e sullo spazio teatrale.

•I personaggi sono per Pirandello delle entità autonome, dotate di vita propria, come scrive nella prefazione a “sei personaggi in cerca d’autore” essi, una volta affiorate alla fantasia di uno scrittore, continuano a desistere indipendentemente dal fatto di essere racchiusi o meno in un testo compiuto, si identificano con la loro forma fissa e immutabile mentre la vita degli uomini cambia, i personaggi ripropongono sempre uguale e vera la propria passione sia essa rimorso, vendetta, dolore, sdegni o altro, mentre gli uomini che lo interpretano aggiungono note false ai drammi che dovrebbero recitare trasformandoli in caricature.

•La linearità della trama non è più necessaria, anzi è proprio impossibile perché sopraggiungono continue interruzioni, riprese, digressioni, ripetizioni a causa delle intemperanze dei personaggi che tentano ciascuno di imporre all’attenzione degli altri e del pubblico la propria verità inconciliabile con quella altrui. Spesso il dramma prende forma all’interno di un altro dramma cioè si assiste ad una sorta di teatro nel teatro perché la finzione e la verità si confondono in un continuo gioco di scambi. Anche il pubblico è trascinato all’interno di questo meccanismo con un effetto di ribaltamento dei ruoli tra attori e spettatori, chi recita davvero? Nella prospettiva di Pirandello chi sul palco recita sapendo di recitare, mentre chi è in platea si illude di vivere in modo libero e spontaneo e non sa di recitare a sua volta nella propria vita sociale.

•Ulteriore conseguenza di questa impostazione è lo stravolgimento dello spazio teatrale tradizionale, prima rigidamente diviso in 2 zone: una destinata agli attori (il palcoscenico, i camerini e le entrate) e l’altra riservata al pubblico (platea e palchi).

I 6 personaggi entrano in modo inatteso dalla porta principale della platea e iniziano a interagire con chi è sul palco mentre gli spettatori devono girarsi ora dietro ora in avanti per seguire quanto accade: è la cosiddetta “rottura della quarta parete”, ossia della barriera ideale, che separa fisicamente ciò avviene sul palco dal pubblico che osserva, ciascuno a suo modo.

Lo spettacolo inizia addirittura al di fuori dell’edificio teatrale, nella piazza antistante con le grida di un venditore di giornali che annuncia il legame tra l’opera che si sta per rappresentare e uno scandaloso fatto di cronaca. Poi ci si sposta nell’atrio del teatro dove una donna esagitata smania per sapere come gli attori interpreteranno la vicenda di cui è stata protagonista. Alla biglietteria intanto interviene un altro personaggio, mentre sul palcoscenico viene rappresentato il fatto, dal pubblico i reali protagonisti della vicenda di cronaca criticano ad alta voce le scelte dell’autore e l’allestimento.

Tuttavia quando i due irrompono sdegnati sulla scema, finiscono per confrontarsi esattamente come il commediografo aveva previsto.

“Questa sera si recita a soggetto” si basa invece sulla messa in scena di una vicenda senza un copione stabilito, un autoritario regista tedesco pretende di fare a meno di un testo, cancellando così il ruolo dell’autore e di servirsi degli attori come passivi esecutori delle sue indicazioni.

Gli attori si ribellano rivendicando la propria libertà d’espressione grazie alla quale ritengono di riuscire a trasmettere i sentimenti con grande intensità. Prevale la posizione degli attori ed essi interpretano una vicenda d’amore e gelosia tratta da una novella di Pirandello, ma la prima attrice, mentre sta recitando la morte della protagonista, cade davvero a terra per un collasso rischiando di morire. Il regista interrompe dunque lo spettacolo affermando che è pericoloso superare il confine tra recita e realtà e che è necessario tornare al testo scritto.

Nella trilogia si può seguire la particolare riflessione di Pirandello sul teatro.

Con “i sei personaggi” viene messa in discussione la possibilità di rappresentare un dramma sulla scena.

Con “Ciascuno a suo modo” si valorizza la capacità dell’arte di anticipare la realtà;

Con “questa sera si recita a soggetto” viene ribadita l’importanza di tutti gli elementi costitutivi del teatro (autore, personaggi, attori e regista).

3. IL TEATRO DEI MITI

Negli ultimi anni della su vita tra il 1928 e il 1936, Pirandello compone una nuova trilogia di opere accumunate da elementi simbolici e mitici:

“La nuova colonia” (1928), “Lazzaro” (1929) e “I giganti della montagna” che non ha modo di completare.

“La nuova colonia”

Propone il mito della fondazione di una società più giusta da parte di un gruppo di disperati in un luogo remoto del mondo, un’isola vulcanica emersa improvvisamente dal mare. Nonostante le loro intenzioni iniziali siano buone, essi si dimostrano del tutto incapaci di vivere secondo le leggi armoniose della natura e in breve tempo ricominciano le sopraffazioni, i furti, i sospetti che raggiungono il culmine nel momento in cui arrivano altri uomini e altre donne. L’eden si trasforma allora in un inferno, mentre un terremoto ingoia nuovamente l’isola e soltanto una donna, la prostituta La Spera, immagine della maternità, scampa la distruzione con il proprio figlio.

“Lazzaro”

Vi è sviluppato il mito della fede. Un uomo, imprigionato in una visione formale e superstiziosa della religione, Diego Sina, dopo un incidente viene dichiarato morto, ma riportato in vita grazie ad una prodigiosa iniezione da parte di un medico. Una volta compreso quanto gli è accaduto, Diego perde la fede perché non ricorda alcuna esperienza dell’al di là e si convince che dopo la morte non vi sia nulla. Il figlio Lucio, che egli aveva obbligato a diventare prete e che era uscito dal seminario per scetticismo, recupera invece la propria religiosità, crede in un dio che si identifica con il tutto della natura e dell’umanità, di cui però mai si potrà cogliere il mistero. Al miracolo scientifico dovuto all’iniezione, segue un altro miracolo inspiegabile che avviene grazie alle parole di Lucio, ossia il recupero dell’uso delle gambe da parte di sua sorella, prima costretta su una sedia a rotelle.

La critica ha espresso giudizi piuttosto severi su quest’opera: la contraddizione di Pirandello nasce dalla difficoltà di sottrarsi al fascino che la religione tradizionale esercita su di lui. Nel momento in cui accoglie la possibilità di una nuova religione vitalistica e naturalistica, lo scrittore non può fare a mano di conferirle le stesse connotazioni soprannaturali di quella antica, anche se i miracoli appaiono opera dell’uomo piuttosto che di Dio.

“I giganti della montagna”.

Pirandello propone il mito dell’arte. In una villa isolata, il mago Cotrone, con alcuni singolari personaggi, coltiva la fantasia, i sogni, le creazioni estetiche mentre sulla montagna i crudeli giganti sono dediti alla guerra e alle attività produttive. L’attrice Ilse che non riesce a fare a mano del contatto con il pubblico si ostina a voler offrire la bellezza dell’arte a uomini rozzi e volgari, recitando loro la favola del figlio cambiato (un’opera di Pirandello). Nonostante Cotrone provi a scoraggiarla, Ilse prosegue nel suo tentativo e cerca l’appoggio dei giganti che rappresentano il potere economico e politico.

L’opera è stata interrotta dalla morte di Pirandello, ma il figlio Stefano l’ha portata a compimento sulla base delle indicazioni ricevute dal padre. Ilse riesce a rappresentare il suo spettacolo davanti ai servi dei giganti, messi nella loro barbarie, sbranano lei e tutta la compagnia teatrale. La conclusione tragica segna allegoricamente la sconfitta dell’arte nel mondo moderno. Chi tenta un compromesso con il potere per avere i sostegni e potersi rasentare al pubblico, finisce divorato dal meccanismo, dunque non rimane altra via che estraniarsi dal mondo come Cotrone e dedicarsi esclusivamente alla ricerca e alla creazione artistica, rinunciando alla comunicazione con gli altri uomini.

Dalla trilogia emerge l’idea utopica che il mondo sarebbe migliore se l’amore prevalesse sugli interessi personali, se la fede non fosse un ossequio alla morale cattolica ma si identificasse nella ricerca di un Dio più vicino all’uomo e alla natura e infine se si desse piena cittadinanza ai poeti e alla loro fantasia creatrice. Tuttavia le suggestioni mitiche non riescono ad imporsi sul generale senso d’amarezza e di disillusione né a costituire una vera proposta fiduciosa nel futuro.

“Sei personaggi in cerca d’autore”.

Venne rappresentato per la prima volta a Roma al teatro valle il 9 maggio del 1921, suscitando grande scalpore. Il pubblico confuso dalle stranezze della trama e dal finale in sospeso, strepita, fischia, inveisce contro Pirandello che deve fuggire di nascosto da una porta di servizio per evitare lanci di monetine.

Nei mesi successivi ferve il confronto sull’opera. Il testo una volta pubblicato viene letto, esaminato, discusso, quando è riproposto a Milano nel settembre dello stesso anno, gli spettatori che ormai sono preparati, lo accolgono con entusiasmo.

Nel 1922 la commedia, tradotta in inglese, va in scena a Londra e poi a New York e tra il 1923 e il 1925 il dramma riscuote i consensi sempre più calori in varie città d’Europa e del mondo (Tokyo, Berlino, Vienna…).

In effetti, agli inizi degli anni 20, gli spettatori non desideravano entrare in platea a trovarsi davanti il sipario aperto, nessuna scenografia, oggetti messi alla rinfusa (sedie, qualche tavolino u un pianoforte). Un allestimento di questo genere non solo non incuriosiva il pubblico ma lo metteva a disagio.

Ad un certo punto, gli spettatori del dramma di Pirandello vedono un inserviente che inizia ad inchiodare alcune assi e pensano che lo spettacolo sia stato rimandato per un qualche problema tecnico. La perplessità cresce nel vedere arrivare attori e attrici vestiti con abiti normali che si mettono a provare una commedia, sempre di Pirandello, che però è diversa da quella in cartellone, e raggiunge il culmine quando dal fondo della platea sopraggiungono sei misteriosi personaggi. Tutto, come indica Pirandello stesso, nelle sue minuziose didascalie al testo, concorre a trasmettere l’idea di uno spettacolo non preparato.

Il sottotitolo “commedia da fare”, l’ambientazione, gli abiti, le interruzioni apparentemente casuali, che sostituiscono la suddivisione in atti, le continue discussioni sulla scena che impediscono l’inizio di una rappresentazione in senso tradizionale.

Nella prefazione alla seconda edizione dei “sei personaggi…” Pirandello chiarisce che il vero oggetto della commedia è l’impossibilità di comporre un dramma. I personaggi si sono ripresentati più volte alla sua fantasia, ma il commediografo non ha voluto scrivere realmente la loro vicenda perché non vi ha trovato un significato universale. Nella loro storia si sommano una separazione, un quasi incesto, la morte di una bambina e di un ragazzino (la prima per un incidente, il secondo per suicidio). Pirandello che con le opere precedenti ha già esplorato il teatro borghese, attraverso la deformazione grottesca, rifiuta la vicenda eccessivamente patetica e sentimentale e decide di mettere in scena l’impossibilità sia di rappresentarla sia di liberarsi dall’ossessione di quei personaggi che, una volta immaginati, restano vivi nella sua fantasia, ciascuno nella propria immobile fissità.

Il padre e la figliastra sono i più definiti dove l’uno è la maschera del rimorso e l’altra della vendetta.

La madre è personificazione del dolore, il figlio incarna lo sdegno e vorrebbe allontanarsi ma è costretto a seguire gli altri.

Infine il giovinetto e la bambina sono personaggi appena abbozzati che non parlano e vanno condotti per mano.

TRAMA

In un teatro si stanno svolgendo le prove della commedia di Pirandello (il giuoco delle parti). Improvvisamente sopraggiungono alcuni signori che dicono di essere personaggi in cerca di un autore: Il padre, la madre, il figlio, la figliastra, il giovinetto e la bambina.

Il capocomico vorrebbe cacciarli perché li considera pazzi importuni ma le parole del padre e della figliastra lo incuriosiscono. Inizia così a pensare che abbiano scelto un singolare espediente per sottoporli un nuovo copione. I personaggi invece insistono nel dichiararsi frutto dell’invenzione di un autore i quali li ha immaginati ma poi non ha voluto scrivere la loro storia. Ciascuno di loro, in particolare il padre e la figlia, preme per spiegare le motivazioni del proprio agire e le ragioni per cui soffre.

Il racconto procede in modo disordinato e confuso e il capo comico, lusingato dalle ipotesi di divenire egli stesso l’autore della commedia, tenta di dare ordine alla vicenda. Si comprende l’antefatto: il padre aveva allontanato il figlio di pochi mesi dalla madre affidandolo ad una balia in campagna.

Poi accortosi della sintonia creatasi tra un suo segretario e la madre, aveva deciso di favorire tale sentimento mandando via la donna. Dall’unione tra la madre e quell’uomo erano nati tre figli: la figliastra, il giovinetto e la bambina. Con il figlio, ritornato ormai ragazzo da lui, il padre non era riuscito a stabilire un rapporto affettuoso e spinto dalla solitudine e dalla curiosità, aveva iniziato ad osservare la figliastra all’uscita da scuola. La madre, spaventata da tali attenzioni, si era trasferita altrove insieme con la nuova famiglia.

Anni dopo, morto il compagno, la madre era rientrata in paese e per ovviare alle difficoltà economiche aveva iniziato a cucire abiti per Madama Pace, una donna che in realtà procurava ragazze a uomini facoltosi. La figliastra, ormai diciottenne, in segreto aveva ceduto alle richieste di Madame Pace e si prostituiva per mantenere la famiglia. L’azione vera e propria riguarda il momento in cui, nell’equivoca sartoria di Madama Pace, la figliastra rischia di avere come cliente proprio il padre che non la riconosce.

Ma l’incontro è interrotto dalle urla della madre. Padre e figliastra vivono la scena davanti agli attori, ma quando questi ultimi la interpretano appaiono falsi e caricaturali ai personaggi che osservano. Nell’ultima parte i personaggi narrano il dramma della bambina che affoga in una vasca del giardino perché la madre, anzi che sorvegliarla, tenta inutilmente di ottenere l’attenzione del figlio sdegnoso, nello stesso momento il giovinetto, sentendosi in colpa per non aver salvato la sorellina, si spara un colpo di pistola.

FINZIONE E REALTA’ si confondono. Il colpo di pistola è echeggiato veramente dunque il giovinetto è morto oppure sta recitando? Gli attori presenti in teatro si dividono tra coloro che gridano allarmati e coloro che ridono pensando ad una simulazione. La risposta non è data.

Il capocomico, esasperato dalla confusione, rinuncia al progetto e manda via tutti. Mentre il palco si svuota sul fondale appaiono le ombre inquietanti di quattro personaggi, mancano il giovinetto e la bambina e si sente risuonare la risata stridula della figliastra

OPERA: Ciaula [1912]

  • si contraddistingue per i toni lirici;
  • pubblicata nelle pagine del “Corriere della sera”;
  • Si apre con un affresco serale in una Zolfara (termine siciliano per indicare la miniera di zolfo).

I picconieri hanno ultimato il loro turno di lavoro ma senza riuscire a compiere a termine l’incarico assegnato. Avrebbero dovuto estrarre ancora alcune casse di zolfo, necessarie per alimentare una fornace il giorno successivo. Il sorvegliante (Cacciagallina) li minacciò con una rivoltella (pistola a retrocarica) per trattenerli ma senza esito. I picconieri addirittura lo sbeffeggiano. Soltanto Zi’ Scarda, un vecchio minatore che aveva perso un occhio, non può ribellarsi ed è costretto a restare e con lui anche il suo caruso Ciàula. Essi dovranno calarsi, per quanto stanchi, oltre 200m di profondità. A questo punto la narrazione viene sospesa e Pirandello presenta i due personaggi.

Zi’ Scarda aveva perso l’occhio quattro anni prima per lo scoppio di una mina che aveva provocato anche la morte del suo unico figlio Calicchio, che gli aveva lasciato una nuora e sette nipotini da mantenere

A pag. 176 ai righi 52-57 leggiamo: In considerazione di Calicchio morto e anche dell’occhio perduto per lo scoppio della stessa mina lo tenevano ancora lì a lavorare. Lavorava più e meglio di un giovane; ma ogni sabato sera, la paga gli era data, e per dir la verità lui stesso se la prendeva, come una carità che gli facessero: tanto che, intascandola, diceva sottovoce, quasi con vergogna, “dio gliene renda merito”. Perché, di regola, doveva presumersi che uno della sua età non poteva più lavorare ben

Ciàula, il caruso, che aveva più di trent’anni (e poteva averne anche sette o settanta, scemo com’era). Nessuno in realtà sapeva il suo nome. Infatti Ciàula era un soprannome “Cornacchia”, attribuitogli per la sua straordinaria capacità di imitarne il verso, tanto che Zi’ Scarda si rivolge a lui proprio col richiamo che si usava per le cornacchie ammaestrate. Nel momento in cui Zi’ Scarda lo richiama egli si sta rivestendo per tornare al paese, magrissimo, tanto che si potevano contare una ad una tutte le costole, indossava un cencio che un tempo forse era stata una camicia, un panciotto un tempo elegantissimo e sopraffino, ora invece talmente lurido e lo sporco si era stratificato a tal punto che a posarlo per terra stava dietro e dei pantaloni con più di una finestra aperta sulle natiche e sulle ginocchia.

Come suo superiore neanche Ciàula protestò per il lavoro prolungato, per quanto sfinito, e si apprestò a fare su e giù per la scala sotterranea con i carichi di zolfo. Di Ciàula infatti non viene messa in evidenza la stanchezza quanto piuttosto la paura, molto particolare, verso la notte

Rigo 100: Cosa strana; della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto stava in agguato la morte, Ciàula non aveva paura; né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbal- zi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossa- stro qua e là in una pozza, in uno stagno d’acqua sulfurea: sapeva sempre dov’era; toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno.

Aveva paura, invece, del buio vano della notte.

Ogni sera, dopo il lavoro tornava al paese con zi mangiava una minestra, poi si accucciava su un sacco di paglia, per terra come un cane, e, nonostante i calci dei 7 orfanelli piombava in un sonno profondo. La paura del buio della notte risaliva allo scoppio della mina, quattro anni prima: Ciàula, sentendo la deflagrazione, terrorizzato, era scappato in un anto noto soltanto a lui per cercare riparo, sempre all’interno della galleria. Ma nella fretta aveva urtato contro la roccia rompendo la lumirina di terracotta, così quando si era risolto ad uscire aveva trovato non poche difficoltà a trovare la scala che lo avrebbe poi riportato in superficie. Ma la paura vera e propria lo aveva colto quanto, fuoriuscito dalla miniera, si era trovato immerso nell’oscurità di una notte senza stelle. Preso dal panico si era messo a correre all’impazzata come se qualcuno lo stesse inseguendo

Quella sera Zi’ Scarda caricava più del solito le sue spalle, sotto il peso del carico il Caruso sentiva le gambe piegarsi, il respiro si faceva sempre più affannoso, la paura del buio gli stringeva la gola, ma quella sera, inaspettatamente, nel fuoriuscire dalla zolfara, dalla galleria, Ciàula non fu colto dallo sgomento del silenzio nero, bensì da un occhio chiaro, come d’argento, che si apriva sempre più man mano che risaliva lungo la scala scivolosa. Dapprima pensò che fossero i primi chiarori del giorno, possibile che avesse lavorato così a lungo? Che stesse lavorando da così tante ore?

(righi 176 e seguenti): Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprí le mani nere in quella chiarità d’argento. Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. Sí, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è data mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, ec- cola, eccola là, la Luna… C’era la Luna! La Luna! E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei44 non aveva piú paura, né si sentiva piú stanco, nella notte ora piena del suo stupore.

Verismo apparente. La novella è solo apparentemente verista e limitatamente alle prime battute, manca infatti del tutto l’attenzione ai meccanismi della società e della lotta per la vita. A differenza di Verga, Pirandello non vuole indagare sulla condizione dei ceti più deboli, schiacciati dai crudeli meccanismi sociali, si limita invece a tratteggiare un ambiente che in modo indiretto conosce bene. Sia suo padre che suo suocero erano infatti proprietari di zolfare, ed egli, dopo la maturità, aveva lavorato nella zolfara paterna per qualche mese in condizione di privilegio. L’interesse di Pirandello è risolto all’esperienza irrazionale vissuta da Ciàula che gli consente, non solo di permeare la novella di lavori simbolici, ma anche di trasferirlo in un sostrato mitico. Come nel mito della caverna di Platone lo schiavo liberato trova la libertà. Così Ciàula rimanendo estasiato dalla bellezza della luna che non aveva mai veramente guardato, compie un percorso di scoperta. Tale scoperta non si qualifica come un’esperienza conoscitiva di tipo cognitivo, bensì come un percorso puramente emotivo e irrazionale che annulla la percezione dolora della vita e costituisce un’epifania e una teofania (manifestazione sensibile della divinità) perché la luna è avvertita quasi come una divinità.

La parodia. Inoltre si compie nel testo anche la parodia della miniera, attraverso il ribaltamento di senso nei luoghi simbolici della novella. Infatti la miniera e il suo esterno notturno, simboleggiano rispettivamente gli emblemi della vita (utero materno, conforto e sicurezza) e della morte (buio, ombre e nero). Poi, scambiandosi i ruoli e significati, vanno a connotarsi come simboli della morte e della vita.

Ciàula è connotato come un demente della cui sciocchezza possono approfittare anche i bambini. Un uomo di 20 anni, con la psiche di un bimbo di 7 o di un vecchio di 70, assimilabile ad un folle. L’ennesima riprova del fatto che, la risposta ai dilemmi del relativismo, e drammaticamente paradossale, l’unica strada in grado di guidarci verso l’autenticità e la pazzia.

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